Erik Varden, monaco cistercense divenuto prelato di Trondheim, è uno di quei pastori che non si rassegnano all’idea che il cristianesimo sia solo un residuo culturale in una società secolarizzata. La sua conversione da adolescente, ascoltando la Seconda Sinfonia di Mahler, dice già molto del suo modo di guardare al mondo: attraverso la musica, la letteratura, la fragilità concreta delle vite reali.

In una intervista concessa al sito spagnolo Aceprensa, Varden affronta una domanda scomoda ma inevitabile: stiamo già vivendo in un’era post-secolare? Da un lato registra il crollo di molte certezze politiche, culturali ed economiche; dall’altro vede crescere una curiosità reale per il cattolicesimo, non come semplice rifugio psicologico, ma come ricerca di qualcosa che “regga l’urto” del tempo presente. Da qui la sua critica alle etichette facili - progressisti contro conservatori, tradizionalisti contro riformisti - e la difesa di una Chiesa che non si lascia sequestrare né dalle logiche politiche né dalle mode comunicative.

In queste righe Varden parla di liturgia, di castità e di sofferenza redentiva, di giovani che passano con naturalezza da un incontro carismatico a una Messa in latino, di letteratura che “salva la vita” perché ti fa scoprire che non sei solo, di musica che sfiora l’eternità, dei Padri del deserto come maestri di realismo e autoironia. E, soprattutto, individua il vero nodo del nostro tempo: la difficoltà a credere di essere davvero amati e chiamati alla vita eterna. L’intervista che segue è, in questo senso, uno specchio impietoso e insieme pieno di speranza sul cristianesimo nel XXI secolo.

Stiamo già vivendo in un’era post-secolare?
Credo di sì. L’ho detto in un paio di conversazioni nell’ultimo anno, e penso che nel Nord Europa questo sia piuttosto evidente.
Viviamo chiaramente in un tempo in cui le tendenze culturali cambiano a una velocità estremamente rapida. E ai cattolici piace essere rassicurati. Per questo siamo tutti molto desiderosi di poter dire: «Oh, tutto ciò che abbiamo vissuto in questi anni è stato solo un incidente di percorso». Speriamo che sia così. Ma credo che tutto dipenda da come accogliamo ora questo momento provvidenziale: che tipo di testimonianza offriamo, che tipo di insegnamento proponiamo.

A che cosa attribuisce il rinnovato interesse per il cattolicesimo?
Direi anzitutto che molte persone ne sono attratte perché è vero. È la ragione fondamentale. E credo che un numero crescente di persone sia rimasto deluso da molte altre opzioni. Davanti al collasso di vecchie certezze e istituzioni e alla grande fragilità della nostra vita politica, culturale, ecologica e finanziaria, la gente cerca parametri che promettano di resistere alla piena.

Si potrebbe obiettare che questa nuova curiosità per la religione sia solo una sorta di appiglio, una tavola di salvezza, ma che non produca vere conversioni.
No, affatto. Incontro conversioni di questo tipo quasi ogni giorno. Devo semplicemente dire che un’affermazione del genere non corrisponde alle evidenze dell’esperienza.

All’interno della Chiesa cattolica si registra anche una certa crescita di quello che viene chiamato movimento tradizionalista, molto legato alla liturgia e ai giovani, e che starebbe creando qualche frizione generazionale. Lei che cosa vede?
Questo fenomeno si osserva in alcuni luoghi, non ovunque. Penso alla Polonia, ad esempio. Penso anche al nostro Paese. Non direi che stia provocando grandi scontri. Lo vedo piuttosto legato a una ricerca di parametri, di una certa bellezza. E la Chiesa questo lo offre.

Finché celebriamo bene i misteri… C’è un principio molto semplice: quando celebri la liturgia, «fai il rosso e dì il nero» [nel Messale le indicazioni per il sacerdote sono in rosso, le preghiere da pronunciare in nero]. In altre parole: limitati a fare ciò che prescrivono le rubriche e lascia risuonare le parole della Chiesa, non solo le tue paroline. Credo che, finché rimaniamo fedeli a questo, la liturgia sia convincente.

Talvolta questo viene letto come un fenomeno retrogrado, un rifiuto del Concilio Vaticano II…
Credo sia ora di essere un po’ più rilassati rispetto a queste categorie, che per la maggior parte non corrispondono ai fatti. Si è scritto molto sul pellegrinaggio di Chartres: un grande pellegrinaggio a piedi da Parigi a Chartres che si svolge ogni Pentecoste. Esteriormente ha un aspetto tradizionale, persino “tradizionalista”. Nell’ultima edizione la partecipazione è stata la più alta di sempre e i giovani presenti erano semplicemente impossibili da incasellare: non erano tutti tradizionalisti furiosi con cravatta e gonne lunghissime. Alcuni di loro, per dire, il sabato partecipano a un incontro carismatico, la domenica vanno a una Messa in latino e il lunedì lavorano con Caritas per dare da mangiare ai poveri. Quello che voglio dire è che, finché continueremo a forzare le persone in categorie così ristrette, non capiremo davvero che cosa sta succedendo.

Pensa che la narrazione “progressisti vs. conservatori” si stia infiltrando nella Chiesa?
È infiltrata da molto tempo. Ma credo che dovremmo sovvertire questa logica dolcemente, con gentilezza e magari anche con un po’ di umorismo. Penso a uno studioso benedettino tedesco, un monaco di Gerlew di nome Elmar Salman. Ha insegnato per molti anni a Sant’Anselmo e io ero presente alla sua conferenza di congedo a Roma. Disse, con la sua caratteristica lucidità: «Per decenni la gente ha cercato di classificarmi come conservatore o liberale». Poi aggiunse, in italiano: «Io preferisco pensarmi classico e liberante». Mi sembra un grande esempio di come si possa spostare la conversazione su un piano più profondo e molto più fecondo.

Non pensa però che il cristianesimo stia emergendo come identità politica?
Certamente ci sono attori che vorrebbero appropriarsene in questo modo. Dobbiamo essere molto attenti alla strumentalizzazione dei simboli cristiani, del vocabolario cristiano e a tutta questa retorica dello “scontro di civiltà”. Il punto su cui dobbiamo continuare a insistere è che non è lecito strumentalizzare la fede per qualsiasi scopo secolare. La fede è chiamata a illuminare, arricchire e approfondire l’ambito secolare, ma non può esserne fatta prigioniera.

Allora, quale direbbe che è la responsabilità di un cristiano oggi?
Mi piace citare un consiglio di sant’Antonio: «Lascia che Cristo sia l’aria che respiri». Si tratta di cercare di vivere vite cristiane coerenti e credibili, che testimonino la speranza, pratichino l’ospitalità, mostrino che cosa significa essere umani, restino attente tanto al dolore quanto alla gioia della condizione umana e coltivino una fascinazione umile per il mistero di Dio.

In una sua recente conferenza per First Things lei parla della scoperta “linguistica” che l’essere umano può fare quando si accorge che «c’è più da dire e altri modi per dirlo». Come può la Chiesa cattolica, che ha deluso molte persone a causa dei casi di abuso, convincere di essere depositaria di verità perenni?
Anzitutto essendo veritieri e portando avanti, nella giustizia e tra le lacrime, l’opera di riparazione. E forse questa stessa esperienza può insegnarci a essere più umili e, quindi, più ospitali. Restando nella metafora del linguaggio, c’è qualcosa che è al tempo stesso una grande sfida e una grande gioia per la Chiesa: come riacquistare e ritrovare entusiasmo per il proprio linguaggio specifico. Negli ultimi decenni la Chiesa cattolica ha avuto la sensazione che il mondo stesse scappando via. E non ha fatto altro che corrergli dietro, cercando di raggiungerlo, imparando a parlare come lui, a usare i suoi segni, a buttarsi su TikTok e Instagram. Se continuiamo così, ci condanniamo semplicemente all’irrilevanza, perché saremo sempre almeno dieci passi indietro rispetto a tutti gli altri. Ma se torniamo a parlare la nostra lingua, il linguaggio della Scrittura, della liturgia, del nostro rituale, dei sacramenti, possiamo dire cose sorprendentemente fresche, originali e belle. E la gente le ascolta.

Tra le molte cose, lei ha scritto della castità e della sofferenza redentiva. Non sono esattamente i temi che vengono in mente per primi pensando a ciò che la gente vuole sentirsi dire oggi… Eppure, li vogliono davvero?
Continuo a stupirmi della ricezione del libro sulla castità. Sono passati tre anni dalla sua pubblicazione e per molto tempo non è trascorso un solo giorno senza che ricevessi lettere, e-mail o persone che venivano a trovarmi. È stato profondamente commovente trovarmi davanti a platee di giovani a Oslo, negli Stati Uniti, in Portogallo, in Spagna… E riscontro molta apertura e un reale desiderio di affrontare queste questioni.

Che cosa pensa che c’entri tutto questo con la ricerca del significato del corpo oggi?
Penso che c’entri completamente. In Portogallo hanno pubblicato La solitudine spezzata e Castità in un unico volume, e ha perfettamente senso, perché in realtà parlano della stessa cosa: che cos’è un essere umano. Il primo libro parla della memoria e delle aspirazioni dello spirito; il secondo di come confrontarsi con la fame, i desideri e le speranze del corpo.

Nel suo ultimo libro lei parla del poema di Gilgamesh e dice che il protagonista potrebbe essere un nostro contemporaneo. Lo descrive così: «Un megalomane innamorato della propria destrezza ma insicuro del suo scopo, ossessionato dalla morte, perplesso per il desiderio del suo cuore, coraggioso davanti all’assurdo ma gravato dalla tristezza». Queste afflizioni sono qualcosa di specifico della nostra epoca? Sono così l’uomo e la donna contemporanei?
Sì. Scelgo intenzionalmente l’epopea di Gilgamesh perché è una delle più antiche manifestazioni di letteratura che conosciamo. C’è anche una nota di ironia in questa scelta, perché un altro tema che cerco di esprimere di tanto in tanto è che non mi convince affatto la dottrina dell’“eccezionalismo culturale”, secondo cui oggi saremmo molto diversi, nessuno potrebbe capirci, funzioneremmo in maniera completamente nuova e non avremmo nulla da imparare da ciò che qualcuno ha detto o vissuto prima di noi. È semplicemente meraviglioso poter indicare questo testo, che ha quasi tremila anni, e dire: «Guarda questo tipo: è proprio come te».

È a questo che si riferisce quando dice che la letteratura può salvare vite?
In parte sì. Questa capacità deriva soprattutto dal fatto che la letteratura (quando è davvero tale, perché non ogni libro è letteratura) è un tentativo di articolare come è realmente la vita.
Credo che possa “salvare la vita” nel senso che mi aiuta a capire che non sono solo, che qualcuno è già passato di qui; che anche se nel mio circolo immediato di conoscenti nessuno sembra capirmi, o penso che nessuno comprenda ciò che accade dentro di me, posso imbattermi in un romanzo contemporaneo, in una poesia del XVIII secolo o in una pagina delle Metamorfosi di Ovidio e pensare: «Ah! Ma questo sono io».

E la musica?
Credo che la musica ci avvicini all’eternità quanto più è possibile in questa vita. Ha una capacità meravigliosa: quella di esprimere l’ineffabile. Ciò che è al di là della portata delle parole può, in qualche modo, essere comunicato dalla musica.

A proposito di cultura: ha scelto di realizzare una serie sulla sapienza dei Padri del deserto. E, ancora una volta, non è proprio la prima cosa che viene in mente quando si pensa alla cultura contemporanea. Che cosa possono offrirci oggi?
Tantissimo. Realismo, sapienza, uno spirito di fede solido, spesso una deliziosa autoironia e un acuto senso delle proporzioni.

Qual è la sfida più grande che impedisce all’uomo contemporaneo di incontrare Dio?
Credo che la sfida più grande sia credere davvero di essere amati.

Che cosa desidera che l’essere umano comprenda di più di sé stesso, in questo momento?
Il suo potenziale per la vita eterna.