Ieri ho preso in mano la prima pagina di un quotidiano nazionale. Titolo: “Scontro tra Vaticano e Israele”. Mi sono chiesto: davvero scontro? O è il nostro lessico ad aver colonizzato la realtà prima ancora di comprenderla? Chiamare ogni divergenza “scontro”, ogni critica “condanna”, ogni dissenso “tensione” non è già un modo violento di abitare lo spazio pubblico? Non rischiamo così di mettere elmetti alle parole e manganelli ai verbi? La scelta dei vocaboli non è neutrale; prepara il terreno su cui poi camminano i fatti. Su questo, gli studi sul framing lo dicono da anni: le parole attivano cornici mentali che orientano ciò che vediamo e come reagiamo.
Nelle scorse ore eravamo ad Assisi, in pellegrinaggio con alcuni giovani sulle orme di San Carlo Acutis e di San Francesco: due figure di pace. A loro abbiamo parlato di pace, pace, pace. Poi scorrono i titoli dei quotidiani — nazionali e non — sulla reazione dell’Ambasciata di Israele alle parole del Segretario di Stato della Santa Sede, e la domanda s’impone: pace? Mi tornano alla mente le domande rivolte al Papa dalla stampa negli ultimi mesi: quasi tutte impostate sulla guerra, spesso costruite per mettere una parola contro l’altra. Se ci pensiamo bene, non solo negli ultimi anni ma lungo tutta la storia, sono spesso le parole ad aver acceso i conflitti o provocato reazioni altrettanto pericolose. Sembra un talk-show: lo scontro fa audience. Non entro qui in valutazioni geopolitiche; interrogo il registro. Possiamo raccontare una tensione diplomatica senza trasformarla, lessicalmente, in una contesa gladiatoria? Possiamo — soprattutto da cattolici — resistere alla tentazione di una grammatica bellica applicata al dialogo?
Non è questione di perbenismo. George Orwell – non un teorico della mitezza, ma dell’onestà linguistica – notava che il linguaggio politico tende a “far sembrare veritiere le menzogne e rispettabili gli atti indicibili, dando solidità al vento”. È una frase abusata, ma purtroppo sempre attuale. Perciò la lotta non è contro 'i giornali', ma contro i nostri automatismi: le categorie con cui nominiamo il mondo.
Una questione evangelica (prima che editoriale)
Se passiamo dal giornalismo alla vita ecclesiale, l’urgenza cresce. Nel Vangelo, Gesù lega il quinto comandamento al linguaggio: “Chi dice al fratello ‘stupido’ sarà sottoposto al sinedrio; chi gli dice ‘pazzo’ sarà sottoposto al fuoco della Geenna”. Non è un eccesso retorico: è la diagnosi di una violenza che nasce in bocca prima che nelle mani. E l’apostolo Giacomo non è più tenero: “La lingua è un fuoco”. Il cristianesimo comincia – e spesso finisce – dalla lingua.
A questo si aggiunge un criterio semplice, spesso dimenticato: “Il vostro parlare sia sì, sì; no, no”. Le parole evangeliche non sono urlate, sono affidabili. La precisione non è pedanteria; è carità.
Quando i commenti sotto i post diventano scandalo
Qui tocchiamo un nervo scoperto. Scorriamo i commenti sotto a video o articoli che parlano di Chiesa (e non solo). Un esempio fresco: in queste ore un sacerdote ha registrato una intervista e tutti i "cattolici della prima ora" si sono lanciati lì sotto a commentare. Quanti interventi volgari, giudicanti, violenti – spesso firmati da chi si presenta come “praticante”, “tradizionalistissimo”, “più cattolico dei cattolici”. La dinamica è nota: si parla delle persone (vita privata, intima, affetti, corpo, orientamento sessuale e politico, ecc…), non delle idee; si colpisce ad hominem, non si argomenta. È un corto circuito non solo morale ma missionario: l’osservatore esterno, che già guarda alla Chiesa con diffidenza, si chiede perché mai dovrebbe avvicinarsi a una comunità in cui il “fratello” è il primo ad essere schernito. È uno scandalo nel senso evangelico: un inciampo che allontana. Senza dimenticare che molti di questi individui sembrano trovare l’unico svago nel controllare e giudicare la vita altrui. E se la persona da colpire è un prete, allora — per loro — diventa quasi una festa del disprezzo e del gossip pruriginoso.
Qui la psicologia (e il buon senso) ricordano che l’insulto rivela più di chi insulta che di chi è insultato: colpisce con le nostre categorie, non con quelle dell’altro. Se “volessimo” ferire davvero, dovremmo colpire ciò che l’altro considera “sacro”; e grazie a Dio spesso non lo conosciamo. Ma già questa ipotesi dimostra l’assurdo: il cristiano non vuole ferire. Dovremmo misurare il nostro dire non sull’efficacia polemica, ma sulla verità nella carità.
Un alfabeto alternativo esiste (e non dobbiamo inventarlo da zero)
Esiste un riferimento laico ma molto utile per i cattolici: il Manifesto della comunicazione non ostile. Dieci principi semplici e impegnativi: “Virtuale è reale”, “Le parole sono un ponte”, “Le parole hanno conseguenze”, “Le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare”, “Gli insulti non sono argomenti”.
È un prontuario di 'ascesi digitale'. Non relativizza la verità; educa a dirla senza ferire – che è l’unico modo cristiano di dirla. A chi teme il “buonismo linguistico”, rispondo con Italo Calvino: nella lezione sull’Esattezza confessava un’allergia profonda all’uso approssimativo del linguaggio. L’esattezza non è fredda: è rispetto per la cosa e per l’altro. Nomina sunt consequentia rerum: se sbagliamo il nome, deformiamo la realtà.
“Le parole sono pietre”: letteratura e responsabilità
La letteratura italiana lo sa bene. Carlo Levi s’intitolava senza giri di parole: Le parole sono pietre. Pietre che possono costruire ponti o lapidare. E Manzoni, nella Storia della colonna infame e nei capitoli della peste dei Promessi sposi, mostrava come una parola – “untore” – basti a scatenare il linciaggio. Non c’è bisogno di algoritmi per capire il meccanismo: etichetti, disumanizzi, colpisci. Una semplificazione linguistica si converte in abuso. Qualcuno dirà: ma i social non li governi con gli scrupoli. Vero. Però Paul Watzlawick ci ricorda un’ovvietà dimenticata: non si può non comunicare. Anche il silenzio, la scelta di non reagire all’insulto, dice qualcosa. E nel Manifesto, non a caso, l’ultimo punto recita: “Anche il silenzio comunica”. La mitezza è una posizione, non una resa.
E quando tocca ai media? Una responsabilità da prendersi sul serio
Non assolvo la stampa – di cui faccio parte – dai propri doveri. Il decreto conciliare Inter mirifica ricorda che i mezzi della comunicazione hanno potenza di bene e di male e che i fedeli devono essere formati alle responsabilità di chi informa e di chi consuma informazione. Anche qui, la Chiesa possiede già una dottrina della parola pubblica: non serve inventare nuovi codici, serve applicarli.
Proprio in questa direzione, Papa Leone XIV, incontrando i rappresentanti dei media, ha ricordato che «la pace comincia da ognuno di noi: dal modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri». È un’affermazione che pesa più di molti editoriali: perché ci ricorda che la comunicazione non è solo trasmissione di informazioni, ma creazione di una cultura, di ambienti umani e digitali che possano diventare spazi di dialogo e di confronto. Il Papa ha chiesto di dire “no alla guerra delle parole e delle immagini”, di respingere il paradigma della guerra, di “disarmare la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio”. Non serve — ha ammonito — una comunicazione “fragorosa e muscolare”, ma una comunicazione “capace di ascolto”, capace di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. È questa, ha detto, la vera forma di giornalismo di pace. E ancora, rivolgendosi direttamente a chi racconta la Chiesa, Leone XIV ha ringraziato i giornalisti per essere riusciti “a uscire dagli stereotipi e dai luoghi comuni” e per aver “colto l’essenziale di ciò che siamo, trasmettendolo al mondo con ogni mezzo”. In queste parole non c’è solo una lode: c’è un mandato. Un invito a disarmare le parole per contribuire a disarmare la terra, come ha ripetuto con forza: «Disarmiamo la comunicazione, e contribuiremo a disarmare la Terra».
Ecco, dunque, la comunicazione ben fatta non è solo un mestiere; è una forma di pace. Chi scrive, chi racconta, chi interpreta — dentro e fuori la Chiesa — deve scegliere se essere operatore di guerra o operatore di pace. Perché, come ha detto il Papa citando il Vangelo, «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Tre esercizi pratici (per cattolici che non vogliono essere parte del problema)
Serve, forse, un piccolo esercizio spirituale della parola: un digiuno lessicale. Prima di scrivere “scontro”, potremmo provare con “divergenza”, “replica”, “nota critica”. Non è un modo per addolcire la realtà, ma per precisarla: se davvero è scontro, sarà la realtà a dirlo. Farà meno click, certo, ma avremo contribuito ad alleggerire il dibattito.
In questo, Orwell resta un ottimo “direttore spirituale”, perché ci ricorda di evitare cliché, metafore stanche, passivi evasivi. Allo stesso modo, la comunicazione non violenta insegna a distinguere le osservazioni dai giudizi, a nominare i sentimenti e i bisogni, e a formulare richieste chiare: un metodo che funziona anche nei dibattiti teologici più accesi. Infine, dovremmo sottoscrivere un patto dei commenti, semplice ma decisivo: criticare le idee senza deridere le persone, tacere quando non si è letto o ascoltato davvero, e trattenere ciò che non si direbbe guardando qualcuno negli occhi. È questo, parola per parola, lo spirito del Manifesto della comunicazione non ostile.
In controluce, un compito di Chiesa
Perché insisto? Perché se gridiamo “pace” e poi militarizziamo il linguaggio, diventiamo inaudibili. E perché il Vangelo mette in guardia: la parola crea mondi o li distrugge. Da Assisi – terra di franchezza e mitezza – tutto questo mi sembra evidente: la conversione che chiediamo al mondo passa dal battesimo delle nostre parole. Non è questione di stile; è questione di testimonianza. In fondo, l’aveva già detto un filosofo non sospetto di devozionismi: “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. A noi, oggi, tocca allargare il mondo scegliendo parole giuste, sobrie, veritiere. E quando serve, tacere.
Marco Felipe Perfetti
Silere non possum