“San Anselmo – ha detto Papa Leone XIV nella Basilica di San Anselmo – deve diventare un cuore pulsante nel grande corpo del mondo benedettino”. Un cuore non parla: pulsa. E il suo silenzio genera vita.

Quando il Papa ha pronunciato queste parole, davanti ai monaci in coro a Sant’Anselmo, non ha parlato di organizzazione o di strutture, ma di ritmo. Il cuore, diceva già Agostino, “è inquieto finché non riposa in Dio”. L’inquietudine non è un difetto, ma movimento vitale: è ciò che mantiene l’uomo desto tra tempo ed eternità. In questa inquietudine si situa il monaco, l’uomo che abita il confine. Leone XIV lo ricorda con forza: il monastero non è un rifugio, ma una frontiera – un punto di contatto tra il mondo che passa e ciò che non passa. È, direbbe il santo d’Ippona, la soglia fra le due città: la civitas terrena, fondata sull’amore di sé fino al disprezzo di Dio, e la civitas Dei, fondata sull’amore di Dio fino al disprezzo di sé. Il monaco non fugge dal mondo: lo attraversa, portandolo nel proprio cuore, perché in esso venga purificato l’amore.

L’azione che nasce dalla quiete

L'Abate Arsenio, quando abitava ancora alla corte imperiale, pregò il Signore dicendo: Signore, guidami alla salvezza. Ed ecco che gli giunse una voce che diceva: Arsenio, allontanati dagli uomini, e ti salverai. Sempre lui, avviandosi alla vita monastica, pregò di nuovo pronunciando le stesse parole. E udì una voce che diceva: Arsenio fuggi, sta' in silenzio e ricerca la quies, giacché da questo deriva l'assenza di peccato.

Non è un invito all’inerzia, ma al ritmo interiore che permette all’azione di nascere dal silenzio e non dalla paura. Lo stesso Leone XIV, commentando la Regola di Benedetto, ha ricordato che la vita monastica è “scuola del servizio del Signore” (schola dominici servitii). Servizio, dunque, ma nato da un cuore in ascolto. Il Papa non propone un equilibrio fragile tra due poli (azione e contemplazione), ma un ordine: prima Dio, poi il resto; prima la preghiera, poi il lavoro; prima l’ascolto, poi la parola. È il ritmo che salva dall’attivismo ecclesiale che tutto pianifica e poco adora.

Il fiume che scaturisce dal Tempio

La liturgia celebrata ieri ha offerto una potente immagine profetica: il fiume di Ezechiele che sgorga dal Tempio e irriga la terra desolata. Leone XIV l’ha interpretato come il simbolo del monastero e, più in profondità, della Chiesa stessa, chiamata a far scorrere la linfa dello Spirito nel deserto della modernità. Qui risuona la sapienza dei Padri del deserto, che non cercarono la sterilità del mondo, ma la sua fecondazione nascosta. Merton lo scrive con chiarezza: essi si ritirarono nel silenzio non per salvarsi da soli, ma per mantenere vivo nel mondo il respiro di Dio. Il Papa ha ricordato che anche oggi “non mancano sfide da affrontare”. Ma la risposta non è l’iperattività, è la radice. Come i monaci del IV secolo piantarono oasi nel nulla, così il cristiano del XXI secolo deve piantare la quiete nel caos.
Non si tratta di resistere al mondo, ma di restare in Dio dentro il mondo.

La città interiore e il tempo

Nel De Civitate DeiAgostino scrive che “due amori hanno fondato due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio, e l’amore di Dio fino al disprezzo di sé” (XIV, 28). È in questa tensione che il monaco vive: fra il tempo che scorre e l’eternità che chiama. Agostino vede nella fede il tempo dell’uomo interiore, e nella verità l’eternità di Dio. Il Papa, nella sua omelia, ha evocato proprio questo incontro fra “finito e infinito”, che fa della chiesa consacrata una “porta aperta verso l’eterno”. Ogni monastero, allora, è un varco nel tempo: luogo dove l’uomo, ricordando di essere mortale, impara a pregare con le mani che lavorano.

Il dono che precede

Quando Leone XIV cita san Giovanni Paolo II: “la conoscenza dei misteri divini non è tanto conquista del genio umano, quanto piuttosto dono che Dio fa agli umili e ai credenti”, rilegge Anselmo nel suo significato più puro: fides quaerens intellectum. La fede non chiude gli occhi, li apre. Ma li apre dall’interno. L’intelligenza della fede non è uno sforzo, è una resa: come il monaco che interrompe la scrittura per un’ora di silenzio, come chi rinuncia a parlare per lasciare che Dio pronunci la parola decisiva. È in questo silenzio che l’uomo scopre che il mondo non si salva per ciò che dice, ma per ciò che tace in Dio.

Il cuore che batte nel corpo della Chiesa

L’immagine che Leone XIV ha richiamato più volte in questi primi mesi di pontificato — quella del cuore — è tra le più forti e rischiose. Un cuore, infatti, può anche ammalarsi: può battere in modo irregolare, troppo in fretta o troppo piano. Eppure, proprio il suo ritmo è ciò che rivela la salute dell’intero corpo.

Così, nella Chiesa, l’equilibrio tra azione e contemplazione non è un lusso monastico, ma una questione vitale. Agostino lo dice con linguaggio forte: se la città di Dio dimentica la sua origine, diventa città dell’uomo. Il Papa, con la meditazione che ci ha offerto ieri, ha dunque ricordato che non basta il fervore apostolico se manca la linfa della preghiera. Senza il cuore monastico, la Chiesa rischia di avere mani che agiscono e piedi che corrono, ma un petto vuoto.

Il sorriso con cui Leone XIV ha osservato i monaci in coro, dediti al canto gregoriano e alla preghiera, ci offre l’immagine di un Papa riconoscente. Riconoscenza per una Chiesa che, pur dispersa nel mondo, ha ancora un cuore che batte nascosto; per un popolo che ancora cerca l’unità tra parola e silenzio, azione e adorazione. Oggi la Chiesa sembra assorbita da comunicati, convegni, strategie, e finisce spesso per logorarsi nel tentativo di capire come rendere più convincente il messaggio di Gesù — un affanno che talvolta nasconde solo la paura di perdere rilevanza nel mondo. La parola del Papa, invece, restituisce alla Chiesa la lentezza del vivere, non per moltiplicare le iniziative, ma per ritrovare la sorgente da cui ogni opera autentica prende vita. E quella sorgente, come ricordano i Padri, sgorga sempre dal deserto.

Marco Felipe Perfetti
Silere non possum