“Il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare” (Regola di San Benedetto, VI). Così si legge in una delle pagine più celebri della Santa Regola, che nel corso dei secoli ha plasmato la vita di intere generazioni monastiche. Ma cosa significa davvero tacere? Perché il silenzio è così centrale nella vita spirituale e, in particolare, nella vita monastica?

Oggi il silenzio è forse la virtù più fraintesa e la più temuta. Lo si confonde con il vuoto, con l’assenza, con la sterilità. Ma il silenzio vero è l’opposto del nulla: è pienezza, è gravido di Presenza. È il grembo nel quale la Parola di Dio può davvero essere concepita, custodita, ascoltata. Nella Regola, Benedetto non prescrive un silenzio rigido o ansioso, ma un silenzio vigilante, colmo di ascolto, aperto al mistero. È uno stile, non una tecnica. È la postura del cuore che si fa ricettivo, disponibile, pronto a obbedire.

Come scrive Benedetto XVI in Verbum Domini, il silenzio è parte costitutiva della rivelazione: «Il Verbo ammutolisce, diviene silenzio mortale, poiché si è «detto» fino a tacere, non trattenendo nulla di ciò che ci doveva comunicare. Suggestivamente i Padri della Chiesa, contemplando questo mistero, mettono sulle labbra della Madre di Dio questa espressione: «È senza parola la Parola del Padre, che ha fatto ogni creatura che parla; senza vita sono gli occhi spenti di colui alla cui parola e al cui cenno si muove tutto ciò che ha vita»» (n. 12). Sulla croce, Dio tace. Ma non è un silenzio d’assenza. È il compimento dell’Amore, che si dice fino alla fine e si consegna tutto.

Il monaco tace, come tace Maria sotto la croce, come tace Cristo nell’Orto, come tace Dio dinanzi a Giobbe. Quel silenzio è parola alta, è il mistero che educa alla verità ultima: non si può ascoltare nulla senza silenzio. Non si può amare nulla senza silenzio. Non si può generare nulla senza silenzio. Viviamo immersi nel rumore. Ma forse è proprio il rumore – di voci, notifiche, urgenze – il nostro modo per fuggire la domanda radicale: dove sei? Dove siamo noi, davvero? In quale punto del cammino, in quale angolo del cuore?

È la stessa domanda che Alessandro D’Avenia riconosce nel silenzio carico del film The Tree of Life, dove una madre affranta interroga Dio per la morte del figlio. La risposta non è una spiegazione, ma una visione: la creazione nella sua bellezza, dalla vastità delle galassie alla fragilità delle cellule. D’Avenia scrive: «Il dolore ha generato la domanda, che costringe Dio a rispondere con le sue credenziali mostrando che non ha smesso di prendersi cura del creato […] la bellezza è il baluardo posto contro il nulla e il male».

Questo è anche il senso del silenzio monastico: non un rifiuto della parola, ma un esercizio di presenza. Tacere per abitare, tacere per custodire, tacere per ascoltare. È lo stesso silenzio che Gesù cercava quando si ritirava a pregare in luoghi solitari. È il silenzio dell’intimità con il Padre, che si fa comunione più profonda di ogni parola. Ma c’è anche un altro silenzio, più difficile: quello di Dio. Quando la preghiera sembra inutile, quando l’invocazione non ottiene risposta. Come Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Quel silenzio non è un’assenza, ma una soglia. È lì che la fede si fa nuda, e l’uomo smette di usare Dio come scudo e comincia a lasciarsi convertire da Lui.

Giobbe lo ha sperimentato: ha parlato, ha protestato, ha gridato. E alla fine, dopo il silenzio di Dio, ha potuto dire: «Ora i miei occhi Ti vedono». Alessandro D’Avenia lo ha compreso e in Ultimo Banco scrive: «la risposta [di Dio] ne orienta il senso invitandoci a non usare il dolore come atto di accusa o di ritirata, e solo così può diventare fecondo». Così, anche nella nostra vita, ci sono silenzi da attraversare. Silenzi che non schiacciano, ma purificano. Che non tolgono, ma svelano. Che non danno risposte facili, ma ci restituiscono a noi stessi. Ecco perché san Benedetto insiste tanto sul tacere. Non per amore dell’ordine, ma per amore della Verità. Solo nel silenzio, la parola non si disperde. Solo nel silenzio, la preghiera diventa feconda. Solo nel silenzio, la bellezza si fa riconoscere.

E forse oggi abbiamo più che mai bisogno di silenzio. Di un piccolo spazio nel cuore in cui sedersi – come suggerisce D’Avenia – «su uno sgabello immaginario, al centro di un cratere su Marte» e premere un tasto, senza dover dimostrare nulla. Un pianoforte su Marte, una bellezza silenziosa che grida senso. Non ci serve dire di più. Serve dire di meno, ma con Verità. Tacere non per nascondersi, ma per aprirsi. Tacere per lasciar cantare il cuore del cuore. Tacere per pregare. Tacere per vivere.

Marco Felipe Perfetti
Silere non possum