Milano - Venerdì 5 dicembre 2025, alle ore 18, nella Basilica di Sant’Ambrogio, l’Arcivescovo Mario Delpini ha pronunciato il tradizionale Discorso alla città e alla Diocesi nel contesto dei Primi Vespri votivi in onore del santo patrono. Il titolo scelto quest’anno - «Ma essa non cadde. La casa comune, responsabilità condivisa» - ha offerto la chiave di lettura di un intervento denso, articolato e volutamente esigente. Una parola rivolta, in particolare, ad amministratori pubblici, politici e responsabili del bene comune, ma indirizzata a tutta la cittadinanza come invito a riconoscere le fragilità del presente e la necessità di un rinnovato protagonismo morale.
L’Arcivescovo ha costruito la sua riflessione attorno alla parabola evangelica della casa edificata sulla roccia, intrecciando l’eredità spirituale di sant’Ambrogio con le urgenze che segnano la vita sociale, culturale ed economica dell’Arcidiocesi. Il discorso, come sempre, non è stato affatto un commento sociologico, bensì una lettura sapienziale della realtà: uno sguardo che denuncia le minacce di crollo, individua chi si fa avanti per custodire la casa comune e ribadisce infine perché, nonostante tutto, la casa non cade.
Una città che percepisce il rischio del crollo
Delpini apre il discorso evocando la grande metafora evangelica: «Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti … ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia». È un’immagine che richiama la responsabilità di costruire su fondamenta stabili. Il presule ha evidenziato che Milano sta vivendo una stagione in cui «si possono riconoscere segni preoccupanti e minacce di crollo». Per mostrare che questa sensazione non è nuova, Delpini rievoca la figura di Ambrogio e il suo confronto con Simmaco: il Vescovo di Milano viveva in tempi segnati dalla percezione dell’imminente fine dell’Impero. Ma Ambrogio replicava che Roma non era stata sostenuta da riti inefficaci, bensì dal «valore di Camillo, dal sacrificio di Attilio Regolo, dall’eroismo di Scipione l’Africano». Era la virtù dei cittadini a custodire la città, non il culto delle tradizioni morte.
Questo richiamo introduce il primo grande movimento del discorso: l’elenco delle minacce che «insidiano la casa comune» e rischiano di travolgere l’intero sistema sociale.
La crisi generazionale e la paura di diventare adulti
La prima e più grave crepa riguarda la generazione giovane: una crisi demografica cronica, un’incertezza diffusa, la fatica a immaginare il futuro. «La generazione adulta deve riconoscere di non trasmettere buone ragioni per desiderare di diventare adulti» afferma l’Arcivescovo, osservando come molti giovani sperimentino «panico, rabbia, fuga, violenza, solitudine» e talvolta cerchino nello sballo o nell’isolamento un anestetico per vivere. È una constatazione dura, ma non accusatoria: Delpini invita a riflettere e a «cercare insieme vie da percorrere», ricordando che esistono ragazzi seri, impegnati, luminosi, ma anche molti altri che si arrendono precocemente.

Una città che non vuole cittadini
Un secondo fronte di crisi è quello abitativo. Milano, denuncia Delpini, rischia di diventare una città che respinge: «Chi cerca casa si vede chiudere le porte in faccia». Le logiche speculative, gli affitti brevi e il rifiuto di concedere abitazioni a famiglie straniere o poco abbienti fanno sì che «si usino le case per fare soldi, invece che per ospitare persone». È una frase che colpisce per la sua immediatezza morale: la casa, primo segno di civiltà, non può diventare solo una leva economica. Quando ciò accade, una comunità si sfalda.
Welfare e sanità in affanno
Delpini dedica un passaggio molto ampio alla crisi del sistema sanitario. Se da un lato riconosce l’eccellenza di molte strutture, dall’altro denuncia «liste di attesa insopportabili», la pressione verso la sanità privata e la riduzione dell’attenzione alla dimensione del prendersi cura.
Colpisce la chiarezza con cui Delpini individua una delle fragilità più profonde della sanità italiana - e in modo particolare di quella lombarda - segnata talvolta da criteri di efficienza e convenienza più che da una reale prossimità alla persona. La sua osservazione sulla confusione tra “curare” e “guarire” non è una critica generica, ma la fotografia esatta di un sistema che rischia di ridurre la medicina a tecnica: quando l’esito clinico diventa l’unico parametro, chi non guarisce viene percepito come un fallimento, e finisce ai margini della cura.
Carceri: una condizione definita “intollerabile”
Il passaggio forse più duro è quello dedicato al sistema penitenziario: «La Costituzione della Repubblica italiana è tradita» nelle reali condizioni della detenzione. Delpini descrive sovraffollamento, degrado strutturale, patologie psichiatriche non curate, uso eccessivo della repressione e totale inefficacia in termini di reinserimento. Una società che fa del carcere «la strada più sbrigativa per sanzionare» i reati, afferma, mostra di non saper prevenire, riparare o recuperare.
Un capitalismo che alimenta l’individualismo
Infine, l’Arcivescovo denuncia la finanziarizzazione della città: «I peccati capitali della finanza», l’uso di Milano come piattaforma per investimenti speculativi o per il riciclaggio di «denaro sporco con il suo fetore di morte». È una denuncia morale e civile: la ricchezza disonesta «deruba i poveri della loro dignità» e genera una spirale di ingiustizia che mina le fondamenta della vita comune.
“Io mi faccio avanti”: il protagonismo delle coscienze
Dopo aver elencato le minacce, Delpini compie una svolta narrativa che rappresenta il cuore spirituale del discorso: la scena si popola di voci. Sono uomini e donne che parlano in prima persona, prendendo su di sé la responsabilità di non essere complici.
L’Arcivescovo immagina una sorta di coro civile, un campionario di figure quotidiane che mostrano che esiste una resistenza morale già in atto.
La coppia di sposi
«Noi ci facciamo avanti… Preferiamo vivere in cinque in tre stanze» pur di dare vita, di custodire una famiglia. La loro rinuncia non è privazione ma libertà: non perseguono il benessere individuale come fine ultimo, ma la gioia della vita condivisa.
La giovane sindaca
«Mi faccio avanti e assumo la responsabilità del bene comune». Non cerca protagonismo, non alimenta polemiche: governa con onestà, lungimiranza e attenzione alle fragilità della comunità.
L’educatore
Delpini dà voce al prete, all’insegnante, all’educatore: «Offrirò le buone ragioni per non drogarsi», non per moralismo, ma per testimonianza di speranza. L’educatore non è «adulto accondiscendente», ma guida affidabile, che chiede sacrificio e libertà.
La responsabile del carcere
Una figura coraggiosa, che afferma: «Non ho mai visto che un trattamento più duro renda migliori le persone». Il carcere deve essere luogo di recupero, non di vendetta. Sono parole che toccano il nervo scoperto della cultura punitiva dominante.
Professionisti, forze dell’ordine, imprenditori, politici, giovani, cittadini
Ognuno pronuncia un «io non sarò complice». L’avvocato che rifiuta il denaro disonesto. Il carabiniere che non si fa corrompere dai delinquenti «educati, in giacca e cravatta». L’imprenditore che privilegia il lavoro rispetto alla speculazione. Il politico che si impegna a discernere e non a inseguire consensi. Il giovane che rifiuta di essere descritto come un problema e si fa avanti «con i miei vent’anni di speranza». Il cittadino comune che paga le tasse, denuncia il malaffare e non cede al lamento sterile. È una galleria di coscienze vigili, che compongono il quadro della Milano possibile: una città non perfetta, ma abitata da persone che decidono di agire.

Perché la casa non cade
Nella parte conclusiva, Delpini ritorna alla fonte teologica della sua visione: la casa non cade non perché le minacce siano poche, ma perché «ci sono persone che si fanno avanti per aggiustarla e renderla abitabile» e perché il fondamento è Cristo, «la pietra angolare». Cita san Paolo: «Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo». L’opera di ciascuno sarà provata dal fuoco, e resisterà solo ciò che è costruito con sincerità, giustizia, sacrificio.
Il suo sguardo finale è un atto di fiducia radicale: «La casa non cade perché ci siete voi… uomini e donne pensosi, appassionati al cammino dell’umanità, fiduciosi nelle risorse delle persone oneste».
È un ringraziamento, ma soprattutto un mandato: custodire Milano e la sua storia significa continuare a farsi avanti, ogni giorno, senza delegare ad altri la ricostruzione della casa comune.
Ci siete voi...
Il Discorso alla Città dell'Arcivescovo Mario Delpini è un testo esigente, che non si accontenta della diagnosi ma chiede un’azione personale e condivisa. Denuncia la paura del futuro, l’indifferenza, le ingiustizie strutturali, l’avidità, la ferocia di un sistema penitenziario inadeguato, la speculazione immobiliare, la malattia del capitalismo finanziario.
Ma al tempo stesso afferma che il futuro non è scritto: dipende dalla capacità di uomini e donne di farsi avanti, di mettere al centro delle loro vite Gesù, assumersi responsabilità e ricostruire una cittadinanza fondata sulla virtù, sul servizio, sulla solidarietà e su un realismo cristiano capace di speranza. L'Arcivescovo non descrive un’utopia, ma una possibilità concreta. Se la casa comune non cade, è perché molti - spesso invisibili - continuano ad alzarsi ogni mattina e a scegliere il bene. E questa, oggi, è la buona notizia per Milano.
d.L.V. e d.E.B.
Silere non possum