Sabato 5 luglio 2025, un altro silenzio si è fatto assordante. Il silenzio dell’abitazione dell’Oratorio di Cannobio, dove don Matteo Balzano, 35 anni, sacerdote della diocesi di Novara, ha deciso di togliersi la vita. Da solo. In una casa parrocchiale. In quella che per definizione dovrebbe essere la casa dell’accoglienza, della fraternità, della misericordia.
A Pasqua, a Bergamo, un altro presbitero si è tolto la vita.
Ma quante canoniche sono oggi case di vetro? Quanti sacerdoti vivono una solitudine imbellettata da sorrisi e parole di “entusiasmo”, mentre dentro gridano come Giobbe nella notte?
«Perché non sono morto fin dal seno di mia madre? Perché mi vennero incontro due ginocchia e due seni per allattarmi? Perché ancora vivo, se tutto è dolore?» (Gb 3,11.12.23)
Giobbe è il nostro fratello maggiore nella sofferenza. Non offre risposte prefabbricate. Non si rifugia nel perbenismo liturgico. Giobbe grida, accusa, discute con Dio. E Dio non lo condanna per questo. Condanna piuttosto gli “amici” religiosi, quelli che vorrebbero spiegare, giustificare, spiritualizzare tutto: «Non avete detto di me cose rette, come il mio servo Giobbe» (Gb 42,7)
Il dolore che non ha diritto di parola
Quanti sacerdoti oggi si trovano imprigionati in un dolore muto? Non perché manchi il desiderio di parlare, ma perché ogni parola rischia di diventare strumento di giudizio, stigma, esclusione. I meccanismi clericali sono spesso i più spietati. Non prevedono ferite. O le nascondono. O le attribuiscono alla “debolezza” di chi non ha saputo reggere.
E così il dolore resta lì, senza voce, senza ascolto, senza dimora. La canonica si fa prigione. L’oratorio, deserto. E il sacerdote, da pastore, si ritrova agnello condotto al macello, nell’indifferenza generale. Qualcuno si illude che basti avere attorno i giovani dell’oratorio per non sentirsi soli. Che le relazioni che ruotano attorno al prete siano garanzia di compagnia, di benessere, di equilibrio. Ma non è così. Si possono moltiplicare le connessioni, le attività, i contatti… ma quanti sono i rapporti veri, quelli in cui un prete può finalmente sentirsi accolto, ascoltato, capito, senza la paura costante di essere frainteso, giudicato, ricattato o ridicolizzato?
Simone Weil, ebrea, filosofa, mistica, lo aveva intuito con lucidità feroce: “La sofferenza estrema non ha voce. Il dolore che supera una certa soglia è come il freddo: paralizza, isola, spegne.” (Simone Weil, Attesa di Dio) E aggiungeva che solo chi ha fatto esperienza di quella solitudine può davvero “attendere Dio” in modo autentico. Non da devoti professionisti della consolazione, ma da mendicanti disarmati della verità.
Quando i superiori sono la ferita
Ci sono casi in cui il dolore del prete non nasce da un peccato, da una colpa, da un errore, ma dalla ferocia del sistema. Superiori che abusano del proprio potere, che umiliano, che zittiscono, che usano la fraternità come minaccia e non come promessa. C’è chi ha ricevuto telefonate per essere “rimesso al suo posto”, chi è stato spostato per vendetta, chi è stato visitato dal proprio vescovo per subire un processo alle intenzioni, chi è stato sbeffeggiato pubblicamente, chi è stato escluso dal presbiterio senza processo né colpa.
Don Matteo, come tanti, era tornato da poco a esercitare il suo ministero tra i giovani. Ma nessuno sa davvero cosa si portasse dentro. E forse mai lo sapremo. Perché il dolore dei sacerdoti viene sepolto due volte: una con il corpo, l’altra con il silenzio. Christian Bobin scriveva: “Ci sono dolori che nessuna parola consola. Ma ci sono parole – o silenzi – che aggiungono dolore al dolore.” (Autoritratto con radiatore) Chi consola i consolatori? Chi ascolta i predicatori? Chi sostiene i confessori quando hanno il cuore stremato?
La Chiesa che non sa ascoltare i suoi
È doloroso dirlo, ma è la verità: la Chiesa oggi non sa ascoltare davvero i suoi sacerdoti. Nei presbiteri, più che fiducia e fraternità, regnano sospetto, diffidenza e tatticismi. Si formano cordate, schieramenti, piccole cricche. Le strutture di accompagnamento spirituale si riducono spesso a burocrazie senz’anima, mentre i servizi psicologici diocesani si trasformano in trappole pericolose, affidate a personaggi che si atteggiano a terapeuti ma non hanno mai sfogliato seriamente un libro di psicologia. Invece di curare, monitorano. Invece di comprendere, sorvegliano. E così, il prete ferito non viene mai accolto come un fratello da sostenere, ma gestito come un caso da contenere. Un problema da risolvere in fretta, purché non dia troppo fastidio. Purché non disturbi l’apparenza.
Papa Francesco ha detto più volte che i preti devono “avere l’odore delle pecore”. Ma chi è disposto a farsi carico dell’odore del loro dolore? Chi è capace di riconoscere che anche un presbitero può cadere, ammalarsi, sentirsi inutile, desiderare di sparire?
“Non è bene che l’uomo sia solo.” Ma quanti sacerdoti oggi “muoiono” soli, e nessuno se ne accorge? Don Matteo è morto così. Ma con lui sono morti anche i tanti silenzi forzati, le lettere mai scritte, le lacrime inghiottite durante l’adorazione eucaristica, le notti insonni passate a domandarsi se davvero Dio chiama, o si è solo sbagliato numero.
Non abbiamo bisogno di parole, ma di verità
Il suo suicidio non ha bisogno di commenti pietistici o frasi di circostanza. Ha bisogno di conversione ecclesiale. Ha bisogno di giustizia, non solo di preghiere. Di riforma, non di retorica. Che i vescovi, i superiori religiosi, i confratelli imparino a guardare negli occhi i preti che stanno accanto, a leggere i segni del dolore, a non usare mai più il potere come una clava spirituale. Perché anche solo una frase mal detta, una minaccia, un trasferimento punitivo, possono diventare un colpo mortale.
“Dovevamo custodirli. Li abbiamo uccisi con il nostro silenzio.” – potremmo scrivere su alcune lastre tombali.
Come Giobbe, rifiutiamo le spiegazioni facili
In questo tempo, come Chiesa, dobbiamo avere il coraggio di non spiegare. Di piangere, gridare, pregare, abbracciare. Come gli amici veri, che siedono accanto a Giobbe per sette giorni e sette notti senza aprire bocca. Prima di rovinare tutto con le loro teorie. Don Matteo è uno di noi. Non va trasformato in martire né in problema. Va ricordato come un uomo, un sacerdote, un fratello che aveva bisogno di una mano tesa. E non l’ha trovata.
Che almeno adesso, nel mistero di Dio, qualcuno lo abbia abbracciato davvero.
d.S.B.
Silere non possum