Cosa distingue un museo diocesano da un museo cittadino? E cosa differenzia la comunicazione cattolica da quella laica? E ancora: che senso ha un grest parrocchiale se è identico a quella di un centro estivo qualunque? Sono domande che molti, pur fortuna, si stanno ponendo. Sono proprio queste le domande che fanno la differenza tra un cristianesimo che evangelizza e uno che intrattiene. Tra una Chiesa che sa chi è e una che si smarrisce in un generico filantropismo senz’anima.

Il museo diocesano: non è solo arte, è annuncio

Pensiamo proprio al museo diocesano. Perché un turista dovrebbe entrarci? Per vedere un’opera d’arte come la vede altrove? Se è solo questo, probabilmente sceglierà un museo statale: è più grande, più organizzato, spesso gratuito. Ma se il museo diocesano è luogo di evangelizzazione, allora cambia tutto. La bellezza è la via regia per incontrare Dio. Lo sapeva bene Hans Urs von Balthasar, quando scriveva che «il mondo non può fare a meno della bellezza, senza cadere nella disperazione». E allora, in un museo diocesano, non può esserci una guida qualunque. Non basta spiegare chi è il pittore e quali colori ha usato. Quel quadro parla di Dio. E spesso racconta non solo il contenuto, ma anche la fede di chi lo ha dipinto. Ci sono artisti che hanno creduto e dipinto la propria fede. Ci sono tecniche artistiche che sono frutto di preghiera e contemplazione, visioni teologiche e richieste dei committenti. Il museo diocesano non è solo uno spazio espositivo: è un’estensione del pulpito. Qui entra in gioco la forza del laicato, il quale ha il compito di evangelizzare, non in Chiesa ma fuori, nel mondo. E invece cosa accade? Percorsi standardizzati, guide prestate da cooperative museali, assenza totale di evangelizzazione. Il risultato è l’anonimato. E, quando tutto si somiglia, nessuno si distingue.

La gestione delle strutture ecclesiali: alberghi o luoghi dello spirito?

Il problema non è solo nei musei. Si estende anche alle strutture ricettive ecclesiali. Alcune diocesi – con la consueta saggezza gestionale che le contraddistingue – hanno affidato questi spazi a personaggi che altrove avevano già dato prova di disastri gestionali, ad esempio quando erano alla guida di alcuni uffici CEI. Il criterio? “È tornato da Roma, cosa gli facciamo fare?” Il metodo? La gestione aziendale di cui alcuni “preti mancati” si dicono esperti. Così, queste strutture vengono organizzate come catene alberghiere: offerte, pacchetti, ospitalità venduta come fosse una camera d’hotel, progetti grafici che vengono messi sul mercato senza neppure aver ottenuto il placet di vescovo e clero responsabile. E soprattutto: nessuna traccia di Dio. Quando va bene, si parla vagamente di “spiritualità”, restando nel generico e nell’ambiguo. Ma sappiamo bene cosa significa questo oggi, anche in molte realtà formalmente cattoliche: la “spiritualità” si è ridotta a yoga, meditazione orientale, suggestioni buddhiste.

Il caso del Monastero di Camaldoli, dove la vocazione monastica italiana è ormai scomparsa, ne è un esempio emblematico e desolante. Un luogo un tempo centro di fede e cultura, oggi svuotato e trasformato in un contenitore spirituale indistinto, senza più radici e senza più missione.

In queste strutture non c’è alcun riferimento a Gesù Cristo, alla preghiera cristiana, alla liturgia cattolica. Spesso la natura ecclesiale di questi luoghi viene volutamente nascosta. Eppure, chi viene in una struttura ecclesiale non cerca il lusso. Chi vuole il lusso va altrove. Chi arriva da noi – spesso senza neanche saperlo – cerca altro: silenzio, bellezza, senso. Cerca Dio. E le esperienze ben gestite, anche in Italia, dimostrano che questo funziona: sia in termini di fedeltà alla missione, sia in termini di successo.  Il paradosso è che non serve essere teologi per capirlo. Basterebbe un po’ di senso strategico. Anche un buon imprenditore sa che, se non offri un’esperienza alternativa, il mercato non ti nota. E noi abbiamo qualcosa che nessun altro ha: la Bellezza, la Liturgia, la Verità di Gesù Cristo che vuole raggiungere tutti.

Comunicazione cattolica: il verbo si è fatto tweet?

E poi c’è la comunicazione. Anche qui, la domanda sorge spontanea: che differenza c’è tra comunicazione cattolica e comunicazione laica? Oggi, per molti, nessuna. Ed è per questo che alcune diocesi promuovono le loro strutture come se fossero resort. Post sponsorizzati, nomi accattivanti, immagini patinate, slogan vuoti. Il linguaggio è lo stesso del mondo, ma senza la potenza del Vangelo. Il problema, però, è più profondo. Alcune diocesi affidano la comunicazione a laici e diaconi permanenti che in Dio ci credono poco ma in sé stessi moltissimo. L’ego ha superato ogni misura, e la preparazione… beh, quella è sempre più imbarazzante.  

Qualche tempo fa un laico che lavora con gli uffici comunicazione di una diocesi dalla “strategia comunicativa” assente domandava con sussiego: “Ma siamo tutti a sbagliare comunicazione o siete voi che avete delle idee strane?” Domanda interessante. Certo, sono sempre coloro che dovrebbero tacere a parlare, ma è bene cogliere la provocazione. 

Quali sono, allora, questi “standard alti” che Silere non possum pretenderebbe?

In primo luogo, evitare errori grossolani. La forma dice molto della sostanza. La correttezza formale, l’accuratezza delle fonti, la precisione nel linguaggio sono segni di rispetto verso il lettore e verso la Verità. La Chiesa ha sempre avuto una vocazione culturale alta, che oggi è sacrificata sull’altare dell’improvvisazione. La superficialità regna. E il risultato è che la comunicazione ecclesiale non comunica nulla. E se ci facciamo caso, le critiche – velate o meno – arrivano sempre da chi si sente toccato nel vivo dalle osservazioni fatte. Se sei una persona che è stata invitata a lasciare il seminario perché non avevi alcuna voglia di studiare, più interessato ai pizzi, ai merletti, alle chiacchiere da sacrestia e alle videocamere che alla teologia o alla preghiera, è inevitabile che, quando Silere non possum parla di un laicato prepotente e anche impreparato, ti senti chiamato in causa.

Ma perché, come Chiesa, facciamo così fatica a metterci in discussione e a puntare a standard più alti, proprio per rispondere con i fatti alle critiche?
 Perché ci siamo lasciati trascinare in quel familismo amorale tipico di certe strutture pubbliche italiane, dove vige la logica del “ho il contratto, quindi nessuno mi tocca”? Anche se non fai nulla di quello che ti è richiesto, nessuno osa contestarti: basta esserci, non servono competenza né risultati. 

Eppure, paradossalmente, nelle aziende serie – quelle stesse che tanti vorrebbero imitare, per ciò che conviene loro – vale una regola basilare: chi non lavora, non mangia. Una logica, tra l’altro, molto più vicina al Vangelo di quanto si pensi. Lo ricorda anche San Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi (3,10): «Chi non vuole lavorare, neppure mangi». Forse bisognerebbe ripartire proprio da qui.

Comunicazione, verità, giustizia

La comunicazione cattolica dovrebbe avere tre pilastri: verità, giustizia, carità. Non servono scoop, ma riflessione. Non servono slogan, ma testimonianza. Non servono professionisti dell’immagine, ma credenti appassionati della verità. La buona comunicazione cattolica non è un’utopia: esistono esempi eccellenti, in cui si coniugano competenza, fedeltà alla tradizione e linguaggio contemporaneo. In questo campo, il mondo anglosassone – e in particolare gli statunitensi – hanno molto da insegnarci: hanno saputo sviluppare una comunicazione incisiva, culturalmente solida e pastoralmente efficace, senza mai sacrificare l’identità cattolica sull’altare della visibilità.

Se il museo diocesano è uguale a quello cittadino, se il grest parrocchiale è uguale al centro estivo comunale, se la comunicazione cattolica è uguale a quella dell’azienda di cosmetici… allora non c’è più alcuna differenza. La Chiesa che dimentica ciò che la rende unica non si adatta, si spegne. Chi invece resta fedele alla propria identità, si distingue, anche in mezzo al rumore uniforme del mondo. È proprio questa coerenza che oggi attira il lettore, anche sui social: chiarezza, autenticità, solidità.

Ed è questo che molti hanno rimproverato al pontificato precedente a quello di Leone XIV: l’incapacità di dire un sì che fosse davvero sì, un no che fosse davvero no. Ma la Chiesa non vive di ambiguità. Ha una Verità da annunciare. E questa Verità non si negozia, si testimonia. E forse è proprio questa la domanda da porci: Vogliamo sopravvivere imitando il mondo o vogliamo salvare il mondo restando Chiesa?

d.C.L.
Silere non possum