Diocesi di Roma

«Forse sarebbe il caso di star zitti quando non si può dire qualcosa di intelligente» hanno detto diversi chierici in queste ore all’interno del Palazzo Lateranense. Il riferimento è al comunicato stampa pubblicato da don Giulio Albanese a nome dei presbiteri del settore centro in difesa di Mons. Daniele Libanori. Come hanno tenuto loro stessi a far sapere, quel comunicato è stato buttato giù da Tarantelli, Libanori e qualche altro presbitero del settore centro che avrebbe tutti gli interessi a tacere piuttosto che fare considerazioni. «Non siamo stati contattati», hanno detto a Silere non possum e hanno scritto un altro comunicato per ribadire che non si tratta affatto di diffamazioni ma di Verità. A prova di quanto dicono i sacerdoti del Centro c’è una triste vicenda che ha visto chiamato in causa anche il Pontefice stesso. Fra coloro che certamente non avrebbero mai messo la firma al comunicato pro Libanori c’è il presbitero che si occupa della cura pastorale della comunità albanese in Italia.

Libanori contro gli albanesi

La vicenda ha inizio con la Costituzione In Ecclesiarum Communione e le norme che Daniele Libanori e Renato Tarantelli hanno voluto inserire in questo testo. Come abbiamo evidenziato nella vicenda che ha riguardato la diocesi di Ascoli Piceno, spesso abbiamo a che fare con sacerdoti che pensano di incarnare l’unica verità assoluta ed hanno queste smanie di protagonismo. Una vera e propria forma di narcisismo in chiave clericale. Nessuno ne è esente, bisognerebbe solo lavorarci. Anche Daniele Libanori, infatti, in queste ore si aggira per i corridoi del Vicariato urlando: “Non sono attacchi a me ma alla riforma”. Martin Lutero – suo mentore – evidentemente non era abbastanza catastrofista.

Ciò che dice Libanori è chiaramente falso ma ci vuole tempo per far comprendere a questa persona che la Chiesa “semper reformanda” può andare avanti anche senza di lui. Tutti siamo utili ma nessuno è indispensabile. Il problema centrale, qui, è proprio questo. Qualcuno crede di essere indispensabile e in questo modo diviene solo una pietra d’inciampo per quella che potrebbe essere – effettivamente – una riforma. La riforma, però, deve portare a migliorarci e non a cambiare le teste di chi poi procede a fare cose ben peggiori di chi c’era prima. Lo abbiamo visto in modo molto chiaro all’interno della Fabbrica di San Pietro (sic!). Nell’Anno Domini 2004 il cardinale Camillo Ruini – il quale probabilmente sta subendo una amara via crucis nel guardare quanto sta accadendo oggi – aveva assegnato la Rettoria di San Giovanni della Malva alla comunità albanese. Il porporato nominò quale nuovo rettore il Rev.do don Pasquale Ferrero, Coordinatore Nazionale della comunità albanese dal 2001 per volontà della CEI. La comunità era riferimento per gli albanesi a Roma e in Italia. La vita sacramentale era particolarmente viva, basti pensare al numero dei battesimi. 120 ne sono stati amministrati di cui 100 adulti. Si trattava del 55% dei catecumeni dell’intera diocesi di Roma. Il presidente della Repubblica e il primo ministro si sono recati diverse volte in visita.

Nell’ultimo periodo – a seguito dell’entrata in vigore della nuova Costituzione – questa realtà è diventata un boccone succulento per Daniele Libanori il quale, lo abbiamo detto, ha un vero e proprio amore per le Rettorie. La sua attenzione si è concentrata sullo stabile annesso alla Rettoria che comprende un appartamento destinato al Rettore ed un convento che, fino a qualche anno fa, era abitato dalle Missionarie figlie di Gesù Crocifisso. Dopo che le religiose hanno abbandonato la casa per via della scarsita di vocazioni, Daniele Libanori ha creduto bene di contattare il rettore – nel dicembre 2022 – e comunicargli che avrebbe chiesto al cardinale vicario di nominare lui quale nuovo rettore.

«Gli albanesi sono più integrati di noi e parlano italiano meglio di noi» ebbe a dire il vescovo ausiliare. Allo stesso tempo gli disse: «Se vuoi puoi continuare a dire messa in chiesa perché a me la chiesa non serve. Poi chiedere in vicariato di farti la nomina a cappellano, vedi tu».  Del resto, a Libanori non importa nulla della Chiesa ma ha solo interesse nel prendere il complesso annesso. Proprio come fece con Casa San Giuseppe. Il 28 dicembre 2022 il rettore si recò presso la Rettoria e vi trovò dentro alcuni giovani che dissero di essere appartenenti al Terz'Ordine Francescano. Addirittura forzarono le porte dell’abitazione del rettore, salvo scusarsi quando questo gli fece notare che era un reato. Il 10 luglio 2023 Libanori riesce a farsi nominare Rettore di questa Chiesa con decreto 1029/23 “al fine di curare nel modo migliore il culto nella Chiesa S. Giovanni della Malva in Trastevere e di provvedere alla custodia del suo patrimonio d'arte e di storia, in conformità all'art. 21 §4 della Costituzione Apostolica In Ecclesiarum Communione”. Purtroppo, però, al buon Libanori non importa nulla del patrimonio artistico e culturale della Chiesa.  La comunità albanese viene spedita senza neppure mettere mano alla convenzione e alle disposizioni del cardinale Camillo Ruini. Come al solito, quindi, il tutto fatto per “tirare a campà”.  

Il 21 ottobre 2023 l’ambasciatore d’Albania presso la Santa Sede si è recata in udienza dal Santo Padre Francesco per presentare le Lettere Credenziali. L’occasione è stata propizia per chiedere a S.E. la Sig.ra Majlinda Frangaj di farsi voce presso il Pontefice di questo grave abuso di potere ad opera di Daniele Libanori.  Francesco ascoltò le considerazioni dell’Ambasciatore e chiamò Baldo Reina, vicegerente della diocesi di Roma, ordinandogli di riaprire la Chiesa degli Albanesi – la quale era ed è tutt’ora chiusa – e riaccogliere la comunità albanese. Ciò che si limitò a fare Reina fu chiamare don Pasquale Ferraro pregandolo di mettersi in contatto con Libanori. La chiamata al “vescovo iracondo” non sortì alcun effetto ma servì soltanto a mandarlo su tutte le furie. Anche recentemente ad un incontro di settore con i sacerdoti ha detto: “Non posso neppure entrare a San Giovanni della Malva perché gli albanesi mi hanno fatto un esposto”.

Ad oggi la Chiesa resta chiusa. La comunità degli albanesi non ha un luogo dove riunirsi, a San Giovanni della Malva ci sono vetri rotti e uno stato di abbandono. Esattamente quale sarebbe la custodia del patrimonio artistico e culturale che il vescovo gesuita starebbe favorendo? Ora, siamo tutti consapevoli del fatto che fra poco bisognerà fare le valigie anche da Casa San Giuseppe ma può un vescovo ausiliare comportarsi come un padrone dispotico rispetto a quelle che sono strutture a servizio del “Santo Popolo di Dio”? Può un vescovo ausiliare insultare i suoi preti e trattarli in questo modo? Non aveva raccomandato il Papa “vicinanza, compassione e tenerezza”?

d.M.S.

Silere non possum