«Il Vescovo diocesano è tenuto a difendere l’unità della Chiesa universale e a promuovere la disciplina comune della Chiesa; perciò deve vigilare perché non si insinuino abusi nella disciplina ecclesiastica». Il can. 392 §1 del Codice di diritto canonico chiarisce un aspetto essenziale della vita dell’ordinario che oggi è spesso dimenticato: la vigilanza rientra nel governo della diocesi, ha un perimetro definito e si traduce in doveri verificabili. Nella stessa prospettiva si colloca il can. 384, che affida al vescovo una speciale sollecitudine verso i presbiteri, perché vivano gli obblighi del loro stato e ricevano sostegno nell’esercizio del ministero. Il rapporto tra vescovo e presbitero si muove dentro un ordinamento che affida missioni, esige coerenza, tutela la disciplina e domanda responsabilità. Da qui discende un compito concreto: guidare, vigilare, intervenire quando emergono fatti che colpiscono la tutela delle persone e feriscono la credibilità dell’istituzione.

Italia: art. 2049 e l’idea di responsabilità oggettiva

Negli ultimi anni, in Italia, ha ripreso forza una linea che sposta l’attenzione dal fatto accertato alla figura del vescovo. In alcune pronunce si è tentato di incardinare la vicenda nell’art. 2049 c.c., la responsabilità dei padroni e committenti per il fatto dei preposti. Da questa impostazione è maturata, nella pratica, l’idea di una responsabilità oggettiva: l’abuso commesso dal presbitero viene fatto ricadere in via automatica sulla diocesi e, per riflesso, sul suo ordinario. Ne deriva una lettura che assimila il sacerdote a un dipendente, la parrocchia a un “luogo di lavoro” sottoposto a controllo costante, il ministero a una prestazione d’opera. È una traiettoria che semplifica il percorso risarcitorio e spinge verso un esito immediato. In diritto, però, regge soltanto se poggia su un titolo di imputazione preciso e su un nesso funzionale dimostrabile, non su un automatismo costruito per presunzione.

Il rapporto vescovo-presbitero: autonomia personale e impossibilità di sorveglianza continuativa

La vita di un presbitero non si lascia ridurre a una catena di comando aziendale. Il vescovo non vive con lui, non governa la sua quotidianità, non controlla relazioni e spostamenti, non presidia ogni contatto, non può assicurare una sorveglianza continuativa. Qualcuno, talvolta, coltiva la tentazione di invadere la sfera privata del sacerdote; resta un confine che l’ordinamento, e il semplice buon senso, per fortuna non consentono di oltrepassare. La struttura ecclesiale si regge su uffici, missioni e responsabilità personali, dentro un ordinamento proprio e con spazi reali di autonomia. Il ministero si svolge in luoghi e tempi differenti, spesso lontano da un controllo diretto e costante. Questo dato diventa decisivo quando si tenta di trasferire in modo automatico categorie civilistiche. Il rapporto di preposizione richiesto dall’art. 2049 c.c. non si presume per il solo fatto dell’appartenenza al clero. L’“occasionalità necessaria” non discende dal titolo sacramentale. Serve un collegamento concreto tra l’incarico affidato e la condotta illecita, ricostruito su fatti, documenti, circostanze verificabili.

Le aule giudiziarie e l’altalena delle pronunce

Alcuni procedimenti hanno dato nuova linfa a questa impostazione. Negli ultimi anni sono stati richiamati, tra gli altri, casi decisi da tribunali come Lecce (2012), Bolzano (2013), Como (2015) e Verona (2019), dove in materia di abusi si è tentato di far operare lo schema dell’art. 2049 c.c.. Il panorama, però, non è compatto. Si registrano anche decisioni di segno diverso, con l’esclusione del rapporto richiesto dalla norma o con l’estromissione dell’ente ecclesiastico dal giudizio. Questa oscillazione dice una cosa precisa: l’idea di una responsabilità automatica è del tutto impensabile. Ogni ricostruzione deve poggiare su fatti accertati, su titoli giuridici chiari, su un nesso funzionale dimostrabile. Quando non emerge la prova della conoscenza, della copertura o di una inerzia colpevole, elevare la responsabilità del vescovo a regola generale diventa un’imputazione forzata.

La soglia decisiva: notitia de delicto e dovere di attivazione

Il perimetro cambia quando arriva una notizia credibile di delitto. Il can. 1717 impone all’Ordinario l’indagine previadavanti a una notitia de delicto almeno verosimile. Il can. 1341 lo vincola ad agire quando occorre riparare lo scandalo, ristabilire la giustizia, correggere il reo. A quel punto conta la condotta del vescovo, concreta, misurabile, verificabile. Arrivano segnalazioni, emergono elementi, si consolidano indizi. Il vescovo riceve, valuta, decide. La responsabilità nasce quando la decisione diventa inerzia colpevole. Il tema, inoltre, non si esaurisce nel delitto di abuso sessuale. L’abuso su minore è tra i reati che più spesso restano sommersi e arrivano tardi alla luce. Molti altri delitti, invece, vengono portati all’Ordinario con maggiore facilità, con circostanze già documentate e riscontri evidenti. Proprio qui si apre una delle criticità più gravi emerse negli ultimi anni: una gestione fatta di “figli e figliastri”, con interventi rapidi quando conviene colpire e silenzi prolungati quando conviene coprire. Dinamiche che attraversano diverse aree della vita presbiterale, dal governo quotidiano alle procedure disciplinari. Quando un delitto viene comunicato all’Ordinario e non segue alcun provvedimento, quando manca perfino una risposta al denunciante, il deficit di governo diventa un fatto grave. È la vigilanza che viene meno. È l’omissione di un compito essenziale. In queste situazioni l’autorità, informata, lascia correre: ed è qui che si configura la responsabilità del vescovo.

Un terreno diverso: incarichi civili e funzioni estranee al ministero

Esistono situazioni nelle quali l’inquadramento civilistico diventa più solido. Succede quando al sacerdote vengono affidati incarichi con profili propri del diritto civile, con responsabilità di gestione, organizzazione di attività, amministrazione di risorse, esposizione a un rischio prevedibile, sulla base di mandati e funzioni che si collocano fuori dall’esercizio strettamente religioso del ministero. In questi casi il collegamento tra le mansioni affidate e il danno può avvicinarsi allo schema dell’art. 2049 c.c., perché emerge un nesso operativo più definito tra ruolo, compiti e conseguenze. Anche qui, però, la tenuta della ricostruzione dipende dalla prova. Occorrono elementi concreti, documenti, circostanze che dimostrino il nesso funzionale. Occorre un giudizio ancorato alle categorie giuridiche, senza scorciatoie. La tutela delle vittime richiede rigore e coerenza: il rigore nasce dal fatto accertato, individua la responsabilità personale, chiama in causa l’autorità quando risultano conoscenza e scelta dell’inerzia.

d.F.C.
Silere non possum