C’è un volto del bullismo che raramente viene nominato, perché si nasconde dietro l’apparenza del bene: è quello che nasce e si alimenta anche negli ambienti cattolici, nei forum, nei blog, nei profili social che si presentano come “difensori della verità” o “sentinelle della fede”.
In realtà, come dimostra il libro Cyberbullying: Bullying in the Digital Age di Robin Kowalski, Susan Limber e Patricia Agatston, le dinamiche psicologiche dell’odio digitale non cambiano — neppure quando si usa il linguaggio della religione.
Gli autori definiscono il cyberbullismo come un comportamento intenzionale e ripetuto, volto a ferire, umiliare o ridicolizzare una persona tramite strumenti elettronici. Ma dietro la superficie dell’insulto o della derisione c’è molto di più: c’è una struttura di potere, un bisogno di controllo e di riconoscimento, un vuoto che cerca di riempirsi attraverso la distruzione dell’altro.
“Gli aggressori digitali - spiegano gli autori - cercano attenzione, potere o status. L’ambiente online fornisce il pubblico perfetto per ottenere ciò che nella vita reale non si possiede.” (Cyberbullying: Bullying in the Digital Age, 2012)
L’invidia che si traveste da zelo
Nei contesti cattolici questa dinamica assume spesso un linguaggio religioso. Si attacca un prete, una suora, un laico appartenente a qualche realtà o un credente “in vista”, accusandolo di eresia, di mondanità, di mancanza di purezza dottrinale.
Poi gli attacchi vengono conditi con insulti, parole inventate e soprannomi – spesso declinati al femminile – che dicono molto più su chi li pronuncia che su chi li subisce. Rivelano l’ambiente, la cultura e il linguaggio da cui proviene l’aggressore, ma nulla raccontano della vittima, se non la paura che suscita in chi non sa guardarsi dentro. Ma dietro l’apparente difesa della fede, si nasconde un meccanismo di invidia spirituale: l’altro viene colpito non perché sbaglia, ma perché brilla. Perché ha voce,, seguito e, soprattutto, libertà. E chi si sente piccolo, escluso o frustrato, prova a rubare un po’ di quella luce. È ciò che il libro definisce una “relazione di potere rovesciato”: l’aggressore si sente inferiore e tenta di ristabilire il proprio equilibrio ferendo chi percepisce come superiore. Nei social utilizzati da noi cattolici, questo può tradursi in un continuo attacco verso chi ha più seguito, più influenza o più libertà di parola. In modo particolare, si cerca di colpire chi cresce e matura, perché la sua libertà spaventa.
Chi diventa più consapevole e meno prigioniero di schemi rigidi — che appartengono più alle sette che alle vere comunità ecclesiali — mette in crisi chi vive di controllo e uniformità. Ed è così che chi non riesce a emergere costruendo, tenta di farsi notare distruggendo.
L’effetto del pubblico: l’odio come spettacolo
Kowalski e Agatston spiegano che la presenza di spettatori amplifica l’aggressione. Ogni like, commento o condivisione diventa un rinforzo sociale: l’aggressore riceve attenzione, approvazione, visibilità. L’odio, in rete, non è mai un fatto privato — è uno spettacolo. E chi guarda, anche solo per curiosità, ne diventa parte. “Il comportamento aggressivo è mantenuto dal rinforzo del gruppo: la reazione del pubblico diventa la ricompensa.” (Cyberbullying, 2012) Nell’ambiente cattolico, dove molti parlano (e sottolineo: parlano) di morale ma pochi di psicologia, questa dinamica viene spesso ignorata.
Si pensa che basti “dire la verità”, anche con violenza, perché “la verità salva”. Ma in realtà, come ricorda il Vangelo, la verità senza carità diventa un’arma.
I feticci dell’odio
Un’altra costante osservata dagli autori del volume è la presenza di ossessioni tematiche negli aggressori seriali: parlano sempre delle stesse cose, colpiscono sempre gli stessi bersagli. Questi “feticci” rivelano il centro nascosto del loro disagio. Proiettano sugli altri ciò che non accettano di sé stessi. Il prete che attaccano, in realtà, rappresenta la loro frustrazione, l’influencer che insultano incarna il loro senso di esclusione, il ragazzo che deridono diventa lo specchio della loro mancanza di pace.
Dietro il moralismo, spesso, c’è un dolore non elaborato. Dietro la rigidità dottrinale, una ferita narcisistica. E dietro l’odio per l’altro, un rifiuto di sé.
Il cristiano e la responsabilità digitale
Essere cristiani oggi significa anche interrogarsi su come si abita la rete. Non basta dire di “difendere la verità”: bisogna testimoniare la verità con mitezza, intelligenza, e amore. Al cristiano non è chiesto di passare il tempo a commentare, insultare o correggere chi non pensa come lui. Se guardiamo con attenzione, esistono pagine, blog e gruppi che nascono non per condividere un pensiero, ma “contro” qualcuno o qualcosa. Non informano, non riflettono, non costruiscono: vivono di opposizione.
Pubblichi una storia in cui cammini e poni una domanda per stimolare un dialogo? Loro fanno uno screenshot, se lo inoltrano freneticamente, criticano tutto - le parole, i gesti, persino il modo in cui ti vesti o parli. Poi, dopo aver raccolto l’approvazione del solito gruppetto di persone frustrate e tristi, producono un video o un post pieno di insulti, accusandoti di non rispettare il loro regolamento della verità assoluta. In fondo, se non avessero qualcuno da odiare, non avrebbero nulla da dire.
E mentre nel mondo ci sono persone assetate di senso, che desiderano davvero incontrare Cristo, loro impiegano il tempo a insultare sui social, facendo sì che tanti giovani si allontanino sempre più dalla Chiesa e pensino: “Io? Come loro? Mai nella vita.”
Al cristiano è chiesto di abitare i social come luogo d’incontro, non di scontro; di offrire contenuti che parlino di Cristo, anche senza nominarlo. Proprio come ricordava Francesco d’Assisi:“annunciate il Vangelo, e se fosse necessario, anche con le parole.”
Sono molti gli incontri autentici che possono nascere anche qui, se questi spazi vengono abitati con rispetto e verità. Oggi la Chiesa non può ignorare i luoghi dove vivono i giovani e gli adulti: è proprio lì che deve annunciare. Ma evangelizzare non significa insultare o correggere tutti, significa testimoniare con la vita.
“La disinibizione online riduce il senso di responsabilità personale.” (Cyberbullying, 2012)
Per questo, la prima forma di testimonianza digitale è la sobrietà. Saper tacere quando tutto urla, non partecipare a catene d’odio, non cliccare per curiosità. Perché ogni click, ogni screen, ogni inoltra, anche involontario, dà forza all’aggressione. E chi segue l’odio, anche solo per guardare, diventa complice.
Rompere la catena
La vera conversione digitale comincia qui: nel non alimentare la menzogna con la nostra attenzione, nel non scambiare il disprezzo per zelo, nello scegliere di accendere una luce invece di puntare un dito.
Chi attacca in rete spesso non cerca la verità, ma un riflesso.
E chi crede davvero non può restare spettatore.
Perché il Vangelo non chiede di vincere le polemiche:
chiede di amare chi ti odia e ricostruire dove altri distruggono