Città del Vaticano -  Sono passati quasi dieci giorni dalla morte di Papa Francesco, avvenuta il 21 aprile 2025, eppure la sua voce continua a risuonare sui media ufficiali vaticani. Interviste esclusive “inedite”, prefazioni postume, dichiarazioni programmatiche pubblicate “a orologeria” e video girati con il telefonino dai collaboratori e inviati a chi li richiedeva, chissà a quale prezzo. Il flusso non si ferma, anzi si intensifica, come se il Papa fosse ancora vivo. E questo non è solo un dato curioso, ma un sintomo profondo del sistema che per dodici anni ha trasformato il pontificato in un grande palcoscenico comunicativo, e il pontefice stesso in un marchio redditizio.

Il Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, guidato con piglio manageriale più che pastorale, appare oggi come l’epicentro di questa operazione. La narrazione di Francesco, il suo stile, le sue frasi semplici e incisive, la sua “pastoralità popolare” sono state confezionate, adattate, moltiplicate. Ogni dichiarazione è stata un titolo, ogni gesto un meme, ogni viaggio un documentario. Ma ora, quando il silenzio dovrebbe parlare, si continua a produrre contenuto. E ci si chiede: chi ha davvero parlato in questi anni? E chi continua a farlo oggi, a nome di un Papa che non può più smentire?

Questa situazione evoca in modo inquietante la riflessione di Neil Postman, nel suo saggio Divertirsi da morire (1985), dove l’autore analizza come l’informazione, nell’epoca televisiva, venga svuotata di contenuto e trasformata in spettacolo. Il pontificato di Francesco è stato il primo davvero immerso nell’era dei social media globali. Ogni parola pronunciata o scritta era immediatamente rilanciata, decontestualizzata, sfruttata. Ma ora che il pontefice è defunto, il proseguimento di questa macchina narrativa suggerisce che non si stava comunicando la realtà, bensì gestendo un prodotto.


Anche Guy Debord, nella sua Società dello spettacolo, offre una chiave di lettura illuminante: “tutto ciò che era vissuto direttamente si è allontanato in una rappresentazione”. Così è accaduto per molti fedeli, i quali hanno creduto in un Francesco “autentico”, senza rendersi conto di quanto la sua figura fosse già stata assorbita in un apparato mediatico che parlava più per lui che con lui.

È lecito domandarsi ora: quali erano le reali parole di Francesco? Quali erano quelle che realmente esprimevano il suo pensiero? Quando diceva "chi sono io per giudicare" o quando diceva "frociaggine"? Quando condannava l'aborto o quando parlava con Emma Bonino elogiandone le idee e l'operato? Quando diceva che la Chiesa accoglie todos, todos, todos o quando cacciava chi non si adeguava alla sua visione di Chiesa?

La pubblicazione postuma, se non dosata con pudore e verità, diventa strumento di mistificazione. In questa fase di sede vacante, tale strategia appare come un tentativo di congelare il messaggio bergogliano e continuare a usarlo finché “vende”, come accade per le icone pop del nostro tempo. La dinamica che si delinea somiglia a quella descritta in testi come Il marketing del Vangelo di Bruno Ballardini, dove si mette in luce come la comunicazione ecclesiale abbia assunto logiche pubblicitarie, spesso più attente al consenso e all’audience che alla coerenza con il Vangelo. E oggi, la morte del Papa sembra essere diventata l’ultimo pretesto per spingere il “brand Francesco” sul mercato globale dell’opinione pubblica.

Ma c’è anche un elemento psicologico da non sottovalutare. Come insegna lo psicanalista Carl Gustav Jung, ogni società tende a proiettare sul leader le proprie ombre, le proprie aspettative salvifiche. Francesco è stato, in un certo senso, lo “specchio spirituale” dei desideri di una parte della Chiesa e del mondo laico: un Papa vicino, umano, aperto. Ora che non può più parlare, quella voce viene tenuta in vita artificialmente, non tanto per rispetto, ma per convenienza. E questo tradisce il bisogno profondo di controllare ancora, di non perdere il potere costruito attorno a quella figura. È singolare che a fare questo siano coloro che parlano di "indietrismo" ogni qual volta si parla di passato. Se la Chiesa deve guardare avanti, non possiamo ancorarci ad un modello, no?

In questo contesto, risulta evidente che qualcuno, a piazza Pia, ha compreso che l’aria sta cambiando. Che il post-Francesco sarà forse meno mediatico, meno funzionale a certe narrazioni. E quindi tenta di spremere fino all’ultimo ciò che resta del capitale simbolico di questo pontificato. È una corsa contro il tempo, una gestione della rendita d’immagine di un Papa che ora, per sempre, tace. La vera domanda, dunque, non è solo “chi parlerà nel prossimo conclave?”, ma: chi ha davvero parlato in questi anni, e chi sta ancora parlando, oggi, a nome di un Papa che non può più smentire?

L.F.
Silere non possum