Davide Prosperi ha scelto di parlare al movimento con un editoriale, non con un’intervista. È un dato tecnico, ma oggi è soprattutto un dato politico: nel momento in cui attorno a Comunione e Liberazione si è addensata una domanda pubblica - alimentata da settimane di inchieste, documenti, contraddizioni - il presidente evita il luogo del contraddittorio e preferisce un testo senza domande, senza follow-up, senza responsabilità immediata di replica. “Un «sì» grato” è, in questa cornice, un discorso che non rischia nulla: nasce in un perimetro controllato e torna a quel perimetro.
È difficile non cogliere l’analogia con una certa politica verso cui Prosperi sembra voler orientare l’intero movimento: quella di chi rilascia dichiarazioni alla televisione di Stato dopo aver concordato domande e tempi, e poi si sottrae al confronto con i cronisti. È la grammatica consueta del potere: ci si mostra sicuri quando si parla a microfoni amici, ci si fa guardinghi quando qualcuno può chiedere “perché?”, “chi?”, “su quali prove?”.
Il paradosso è che, nello stesso testo, Prosperi richiama l’urgenza di un giudizio pubblico “che nascesse dalla fede” fino a immaginare un contributo politico. Ma un contributo pubblico, se vuole essere credibile, pretende lo stesso metodo anche da chi guida: trasparenza, confronto, verificabilità. Quando la guida si sottrae, il messaggio implicito diventa limpido: la comunità deve esporsi, chi governa può restare al riparo. Don Giussani, in una frase che oggi pesa come una pietra, descriveva il rapporto con l’altro come condizione di vita: la novità arriva sempre dall’incontro; e chiariva che il dialogo è vero solo se è paragone tra ciò che l’altro porta e la coscienza di sé, cioè una coscienza critica che precede ogni confronto. L’editoriale “protetto” è l’opposto di questo metodo: non cerca un paragone, lo preveniene; non accetta il rischio, lo sterilizza. Ed è qui che lo scritto di Prosperi, letto nel contesto, diventa un gesto di governo più che un augurio.
Il carisma come scudo: la sostituzione più pericolosa
Prosperi ribadisce che “il carisma di CL è vivo” e che l’unità custodisce “una cosa grande”; poi presenta l’approvazione del nuovo statuto come “segno di stima” e di “paternità” del Dicastero. È un passaggio chiave: la questione calda viene assorbita in una cornice spirituale, come se l’autorità ecclesiastica bastasse a chiudere il dossier e a rendere superflua ogni domanda. Eppure don Giussani ha sempre chiarito che il carisma non è un lasciapassare, né un marchio d’immunità. È la forma storica, concreta, con cui l’avvenimento cristiano raggiunge persone e comunità in un tempo e in un luogo; è “il buco” attraverso cui si entra nella totalità della fede. Proprio per questo non consacra le lotte di potere, non copre le calunnie mosse da chi guida il movimento ai predecessori, non può sostituire la verifica. Quando il carisma viene impiegato per blindare una linea di potere o per disinnescare le obiezioni, smette di essere un varco che apre lo spazio della libertà: diventa una parete che lo chiude.
Qui affiora una contraddizione interna allo stesso editoriale. Prosperi descrive la comunione come il luogo in cui possono fiorire perdono, stima reciproca e un giudizio nuovo. Ma se, nella pratica, quella comunione non regge le domande scomode, non accetta il contraddittorio, non tollera la richiesta di fatti, allora si riduce a una concordia di facciata: parole spirituali che funzionano da copertura. Ed è proprio qui che il linguaggio rischia di diventare insopportabile. Parlare di perdono mentre, da anni, si colpisce il predecessore con insinuazioni, ricostruzioni non verificate e vere e proprie illezioni, significa svuotare quelle parole del loro peso. Non è un problema di stile: è una questione di verità. Perché usare Dio come schermo per legittimare il proprio operato non è un dettaglio comunicativo; è un abuso della parola, e chiama in causa la responsabilità davanti a Dio e davanti agli uomini. È precisamente il punto che Dom Dysmas De Lassus mette a fuoco quando distingue la vera armonia - capace di integrare la diversità - dall’uniformità che schiaccia, alimentando una “bolla di autogiustificazione” e una selezione di ciò che “si vuol mostrare” all’esterno. Il rischio non è teorico: un testo “assistito” e non discutibile è un esercizio di presentazione, non un atto di comunione.
Unità non è uniformità: la differenza che salva un movimento
Prosperi invoca l’unità. Ma la tradizione di Giussani è molto più esigente: l’unità della Chiesa e della comunità non nasce dal nostro progetto o dalla nostra disciplina; è un fatto che ci precede, una “unità ontologica” determinata da un’origine più grande di noi. Proprio perché l’unità è così, non ha bisogno di essere garantita da meccanismi di controllo: può permettersi la libertà, persino il conflitto leale, perché non coincide con il consenso. Questo, peraltro, è ciò che gli è stato permesso per anni quando era vicepresidente di CL e manifestava il proprio dissenso rispetto a ciò che dicevano tutti gli altri. Padre De Lassus, nel libro Schiacciare l’Anima, aiuta a vedere cosa accade quando questa differenza si perde: l’uniformità diventa un metodo di governo che chiede adesione esteriore e scoraggia il dissenso, mentre la comunità si difende filtrando gli eventi e costruendo una comunicazione che prende distanza dalla verità reale. È il punto decisivo: la comunione cristiana non cresce togliendo ossigeno alle domande; cresce quando le domande vengono ospitate e ordinate.
E qui si comprende perché la rinuncia all’intervista natalizia al Corriere della sera non è un dettaglio. Giussani raccontava esplicitamente che le domande aiutano a capire meglio, perché “le parole sono il luogo dello svelamento del reale”. Un presidente di CL che rinuncia al luogo delle domande rinuncia, in pratica, a questo “svelamento”. Si sottrae al metodo.
Il punto della verità: quando la “fiducia” diventa scorciatoia
Nel testo Prosperi sembra riproporre proprio quello stile che, in questi anni, ha tentato di rimettere al centro: una fede interpretata come terreno di contrapposizione e di schieramento, più che come spazio di incontro e di accoglienza dell’altro. Il lessico è volutamente denso e autorevole: paternità, stima, fiducia, percorso, responsabilità comune. Ma oggi la questione non è la bellezza di queste parole. La questione è l’uso che se ne fa: se diventano una scorciatoia, come se la fiducia dovesse venire prima della verità dei fatti, prima del chiarimento, prima della verifica. Don Luigi Giussani, al contrario, legava la vita della comunità proprio alla verificabilità: la Chiesa è un luogo sperimentabile, e la permanenza di Cristo non è un’idea da difendere ma un avvenimento che accade nel presente e, per questo, si misura nell’esperienza concreta.
Se una guida invoca “unità” e “carisma” per chiedere silenzio, per ridurre le domande a disturbo, allora non sta custodendo il cammino di Giussani: sta cambiando metodo. Sta spostando il criterio della verità da ciò che una comunione libera riconosce e verifica, a ciò che viene sancito e imposto dall’alto. E quando questo “alto” coincide con una gestione personale del potere, con dinamiche di cerchio chiuso e con manovre di controllo, la fede finisce piegata a strumento di legittimazione, non più proposta di libertà.
“Un «sì» grato” tenta di archiviare una stagione di domande attraverso un gesto di governo rivestito di linguaggio spirituale. Ma le domande non si spengono con lo spiritualismo; si attraversano con la verità. E la verità, per sua natura, non teme interrogativi, non cerca contesti protetti, non ha bisogno di filtri. Per don Giussani il carisma non è mai stato una corazza. Era ed è una forma storica dell’avvenimento cristiano, quindi un richiamo continuo al rischio dell’incontro, al paragone con la realtà, alla parola che si espone e accetta di essere verificata. Quando il carisma diventa copertura, tradisce la propria origine. Se il presidente di CL assume lo stile di certi politici che selezionano i luoghi, addomesticano le domande e, nei casi peggiori, arrivano a dileggiare chi fa il proprio mestiere - i giornalisti - allora il movimento viene educato lentamente a qualcosa di diverso dalla libertà cristiana: viene educato a scambiare l’obbedienza con una sottomissione senza discernimento e la comunione con l’uniformità. È un’educazione che può funzionare sul piano del controllo, ma non è quella di don Giussani, né quella del cristianesimo.
d.M.S.
Silere non possum