C’è un dettaglio che tradisce le nostre comunità prima ancora delle parole: il tono. Più volte abbiamo riflettuto sulle criticità che abitano certi ambienti cosiddetti “tradizionalisti”, “conservatori”, “di destra”. Ma oggi lo sguardo si volge altrove: verso quell’atteggiamento, non meno problematico, che contraddistingue chi si pone in antitesi a queste categorie.
Lo facciamo a partire da ciò che abbiamo osservato e vissuto durante la presentazione dell’esortazione apostolica Dilexi te nella Sala Stampa della Santa Sede. Il clima era lo stesso che si respirava attorno ai tavoli del Sinodo sulla sinodalità: un’aria sottile, fatta di sorrisi tesi, battute difensive, risposte che non cercano il dialogo ma lo schivano. Basta guardare le micro-reazioni alle domande più scomode: un sorrisino ironico, una battuta che vuole alleggerire ma in realtà svia, una replica che si chiude a riccio invece di aprire un confronto.
Emblematico il caso del cardinale Michael Czerny, S.I., Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale: a chi gli chiedeva come mai tante persone avessero espresso riserve sul documento, ha risposto più o meno così — «Il problema sono loro, non noi». Ecco la grammatica del passivo-aggressivo: non ti colpisco apertamente, ma ti faccio capire che la tua domanda è “fuori luogo”, “inopportuna”, “ostile”. È una forma di comunicazione che maschera l’aggressività sotto una patina di cordialità, e che tradisce una Chiesa che predica l’ascolto ma fatica a praticarlo, che parla di sinodalità ma teme davvero di mettersi in discussione. È questo, davvero, il linguaggio di una Chiesa che dice di voler camminare insieme?
Il linguaggio della sufficienza
Non serve un manuale di psicologia per riconoscere il passivo-aggressivo ecclesiale. Lo si percepisce subito, in quelle risposte che sembrano educate ma sono intrise di ironia, in quel “capisco la preoccupazione” pronunciato con un sorriso di sufficienza che, più che accogliere, svaluta. Lo si avverte quando, invece di entrare nel merito, si richiama l’autorità del ruolo o la propria competenza, come se bastasse il rango per chiudere la discussione. O ancora, quando si sposta l’attenzione dal contenuto della domanda al tono di chi la pone, come se fosse questo il vero problema. È una modalità tanto sottile quanto diffusa: un modo di mantenere il controllo apparendo concilianti, di respingere senza sembrare duri. Ma questa dinamica non nasce dal nulla. È il riflesso di una Chiesa che ha importato le etichette del discorso pubblico — amico e nemico, progressista e conservatore — e che poi si stupisce se il dialogo si irrigidisce come in un talk show, dove non si ascolta per capire, ma solo per rispondere.
Non dovremmo sorprenderci, allora, se sui social proliferano preti e laici che riducono ogni confronto sulla Chiesa – o persino sulla fede – a una serie di contrapposizioni elementari: “pro” o “contro”, “tradizionalista” o “modernista”. È il segno più evidente di un impoverimento del pensiero: la maggior parte dei cattolici oggi fatica ad affrontare discorsi complessi, e i social non fanno che amplificare questa difficoltà.
Così, in un giorno sei bollato come modernista, il giorno dopo come tradizionalista. È il destino di chi cerca l’equilibrio, di chi non scrive per compiacere ma per pensare, di chi non accetta tutto come oro colato e prova, davvero, ad ascoltare tutti — non solo a parole. Ma in una Chiesa sempre più segnata dalla logica dello schieramento, o sei “a destra” o sei “a sinistra”. Se non riescono a incasellarti, vanno in tilt. E allora viene spontanea una domanda: da dove imparano preti e laici questo modo di agire? La risposta, purtroppo, è semplice. Lo apprendono da chi sta sopra di loro - da quei superiori che, con l’esempio quotidiano, hanno fatto della polarizzazione un metodo pastorale.
Newman come lente: la tribù prima dell’argomento
Nel momento in cui la Chiesa si appresta a proclamare san John Henry Newman Dottore della Chiesa, è utile tornare al suo Loss and Gain: un testo in cui il cardinale mostra con lucidità disarmante un meccanismo di sempre — si aderisce prima a una fazione, e solo in seguito si piega la verità a quella scelta.
Le conversazioni tra il giovane Charles Reding e compagni più scafati (gli scettici, i polemisti, i mezzi-devoti) mostrano bene la sostituzione del criterio con il cartellino di appartenenza. Non è la veemenza a dominare, ma quella cortesia puntuta che lascia l’altro al suo posto: lo si fa sembrare fuori contesto, non all’altezza, non “dei nostri”.
Newman ci avverte: quando la fede si riduce a sistema di gruppo, il dialogo diventa fencing - schermaglia elegante, colpi di fioretto, mai il cuore della questione. E quando la conversazione pubblica ecclesiale assume la forma della “schermaglia”, il primo sacrificato è l’ascolto; subito dopo, la verità condivisa.
Linguaggio del controllo
In questo modo di comunicare si intrecciano diversi fattori. Anzitutto la partigianeria importata, che ha trapiantato nel linguaggio ecclesiale le stesse categorie del dibattito politico — destra e sinistra, progressisti e conservatori — fino a ridurre le persone a semplici “portavoce” di uno schieramento, più che interlocutori reali. A ciò si aggiunge una certa povertà del dialogo, per cui la mitezza viene fraintesa come silenzio e l’autorità come esenzione dal dover rispondere. In questo clima, il linguaggio passivo-aggressivo diventa una comoda scorciatoia per mantenere il controllo: non si replica, ma si lascia intendere di aver già giudicato l’altro. Il risultato è sempre lo stesso: un’apparente cordialità che cela il rifiuto del confronto, e che allontana invece di avvicinare.
Amore che converte
Eppure, se osserviamo la vita di Gesù, il Vangelo ci mostra numerosi episodi in cui Egli si muove proprio verso coloro che non erano ben disposti nei suoi confronti, verso chi lo contesta o lo fraintende, e lo fa con il linguaggio dell’amore, non con quello della supponenza. Entra nella casa del fariseo (Lc 7,36-50) e accetta l’invito di chi lo giudica, dialoga con Nicodemo (Gv 3,1-21) accompagnandolo nella sua ricerca, si ferma al pozzo con la samaritana (Gv 4,1-42) per trasformare la diffidenza in sete di verità. Dopo la risurrezione, cammina accanto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) che stanno abbandonando tutto, e interroga con dolcezza Saulo (At 9,1-9), il persecutore, per aprirgli un cammino nuovo. Persino davanti a Giuda, lo chiama “amico” (Mt 26,50), cercando fino all’ultimo un varco nel suo cuore. Gesù va verso chi non condivide, espone il cuore del messaggio, accoglie l’obiezione e spesso rilancia con una domanda che fa crescere l’altro. La mitezza evangelica non è evasione, ma fermezza senza aggressione, un modo di dire la verità che non ferisce, ma disarma.
Chi parla come cristiano — e ancor più chi lo fa con autorità perché chiamato a ruoli di responsabilità — dovrebbe anzitutto dichiarare di aver ascoltato davvero. Parafrasare la domanda prima di rispondere non è un formalismo: è un piccolo patto di correttezza. Poi occorre venire al merito: una tesi chiara, una prova, un riferimento preciso. È il contenuto, non l’ironia, ciò che disinnesca il sarcasmo. L’ironia, se rivolta all’argomento, può alleggerire, ma, se colpisce l’interlocutore, diventa puro passivo-aggressivo. E se non si può rispondere, è più autorevole ammetterlo — “non posso anticipare”, “non è il mio ambito” - che rifugiarsi nell’elusione. Ogni risposta dovrebbe chiudersi con un atto di chiarezza: “Ecco cosa possiamo dire con certezza; su questo invece ci aggiorniamo”. L’assertività, non la reattività, è la vera forma della mitezza. Anche chi domanda ha la sua responsabilità: formulare domande a lama singola, una questione per volta, verificabile, senza insinuazioni sulle intenzioni. Il giornalista che separa la persona dalla tesi apre lo spazio del dialogo; chi invece le confonde ne chiude la possibilità. E quando arriva il sorrisino, la miglior replica è tornare al testo: “Chi ha reagito in questo modo, quando, dove, perché? In quale paragrafo l’Esortazione affronta questo tema?”. Così si costringe al merito e si restituisce dignità alla conversazione.
Le nostre parole dicono chi siamo: in sala stampa come in parrocchia, in un capitolo religioso come in un consiglio pastorale. Se alla critica rispondiamo con un sorriso di sufficienza, abbiamo già perso qualcosa di evangelico. Non serve essere d’accordo su tutto, serve voler capire. Newman ci ricorda che la fede non cresce per appartenenze, ma per intelligenza paziente della verità. Il resto - i sorrisini, le battute, le impazienze - sono solo rumore. E nel rumore, non sentiamo prima di tutto il Signore.
p.F.M.
Silere non possum