Ieri sono uscito dal cinema con una sola immagine in testa, quella che dà il titolo al film: «Attitudini: nessuna». Non è soltanto il nome di un’opera, ma la copia esatta di una riga di pagella, vergata da una maestra accanto al nome di un ragazzino che si chiamava Aldo Baglio. E accompagnata da una frase che suona come una condanna: «Io ti promuovo, ma promettimi di non iscriverti alla scuola superiore». Nel film tutto è raccontato in modo semplice e potente, con una regia di Sophie Chiarello che dà l’idea di voler restare il più possibile genuina. Per tutta la proiezione ho avuto l’impressione di Chiarello con in mano un iPhone, intenta a fissare ciò che, a briglia sciolta, Aldo, Giovanni e Giacomo raccontano della loro vita. Perché quel ragazzino diventerà proprio Aldo di Aldo, Giovanni e Giacomo. Ma prima, a sedici anni, andrà a fare il meccanico, andrà a vivere da solo, crescerà portandosi addosso quella etichetta: «attitudini: nessuna».

Il film è splendido perché ci offre uno spaccato sulla vita di tre uomini che, come accade per tutti coloro che vediamo solo attraverso uno schermo, che sia la tv o lo smartphone, dimentichiamo troppo facilmente essere persone reali, con gioie e dolori, successi e insuccessi. Dietro il mito ci sono fatiche precoci, fabbriche, posti fissi abbandonati, famiglie ferite. Eppure, quella frase che oggi Chiarello ha scelto come titolo è la dimostrazione che una singola parola adulta può diventare la griglia attraverso cui un ragazzo legge sé stesso per anni.

Non è severità: è un abuso verbale

Ed è per questo che il pensiero corre a quei giovani che, troppo spesso, hanno sentito frasi di questo tipo da parte di insegnanti che erano tutto fuorché buoni esempi. La pedagogia contemporanea è molto chiara su un punto: espressioni come «Non hai nessuna attitudine», «Nella vita non farai niente», «Non sei portato» non appartengono al rigore educativo, ma rientrano a pieno titolo nell’abuso verbale. Un documento rivolto ai docenti, che elenca ciò che non andrebbe mai detto a uno studente, considera tra gli errori più gravi proprio le previsioni negative sul futuro dei ragazzi, quelle frasi che suonano come un verdetto del tipo «non combinerai mai nulla». Parole così possono segnare una vita intera, perché gli studenti tendono a prenderle alla lettera, non come una semplice sfuriata del momento, e non è raro che molti adulti, decenni dopo, ricordino ancora con precisione “quella” frase del professore che ha ristretto il loro orizzonte. Scrivere su una pagella «attitudini: nessuna» è esattamente questo: non è la valutazione di un compito, ma una vera e propria sentenza sulla persona, sulla sua capacità di riuscire in qualsiasi cosa. È un modo elegante per dire: «Da te non mi aspetto niente».

Il potere delle aspettative: la profezia che si autoavvera

Il paradosso è che la ricerca psicologica mostra esattamente il contrario: le aspettative dell’insegnante contano enormemente. Il celebre esperimento di Rosenthal e Jacobson, noto come Pygmalion in the Classroom e citato in quasi tutti i corsi su infanzia ed educazione, fu condotto in una scuola elementare qualunque. Ad alcuni insegnanti veniva detto che certi bambini erano “destinati a una grande crescita intellettiva” (in realtà scelti a caso). Dopo un anno, quei bambini avevano guadagnato in media più punti di QI degli altri, con differenze impressionanti nelle prime classi: in prima elementare il gruppo “speciale” cresceva di oltre 27 punti, mentre il gruppo di controllo si fermava a circa 12. Tradotto: quando un adulto che ha autorità crede che tu possa crescere, cambia il suo modo di guardarti, di parlarti, di proporti sfide. E tu, quasi senza accorgertene, finisci per crescere davvero. Se questo è vero per le aspettative positive, immaginiamo l’effetto di una formula come «attitudini: nessuna». Per qualcuno, come Aldo, la storia si ribalta: il ragazzo “senza attitudini” diventa l’autore di una delle comicità più popolari del Paese. Ma per molti altri quella profezia si autoavvera: se chi dovrebbe sostenermi mi dice che sono vuoto, perché dovrei investire su me stesso?

Quando l’adulto scarica la propria frustrazione sul ragazzo

Qui entra in gioco un altro aspetto che i testi pedagogici mettono a fuoco con brutalità: il problema non sono solo gli studenti, ma gli adulti che non reggono il proprio mestiere. Martin Haberman descrive la scuola come una sorta di “pentola a pressione giudicante”: gli insegnanti sono continuamente valutati da dirigenti, genitori, test standardizzati; sotto quel peso, molti non reggono e scivolano nel burnout. Per difendersi, anziché interrogarsi, iniziano a colpevolizzare sistematicamente chi hanno davanti: studenti, famiglie, “il sistema”. Quando un docente non “fa i conti con se stesso”, dice Haberman, smette di vedere nei ragazzi dei soggetti in crescita e vede solo ostacoli: “quelli che non hanno voglia”, “quelli che rovinano la classe”, “quelli che non sono portati”, “quelli che non hanno attitudini”.  È in questo clima che si generano le frasi-sentinella: «Sei un disastro», «Non sei capace», «Attitudini: nessuna». Non sono valutazioni lucide: sono scarichi di frustrazione mascherati da giudizi pedagogici.

Dal cinema a TikTok: la rivincita contro la prof

Il film di Chiarello, in fondo, racconta anche questo: tre uomini segnati da giudizi liquidatori di docenti, «registi», «potenti del mondo dello spettacolo» e da vite precarie - anni di fabbrica, contratti a tempo indeterminato lasciati per seguire il teatro, famiglie scettiche («mollare un posto sicuro per fare il pagliaccio») - che riescono a trasformare quella mancanza di fiducia in pura energia creativa. Non a caso, guardando il film, mi sono tornati alla mente quei video che a volte pubblicano i nostri giovani in oratorio: «Ciao alla mia prof che diceva che non avrei combinato niente nella vita». Accompagnati da foto di progetti incredibili, viaggi, vite in costruzione. Ragazzi e ragazze che hanno aperto un’azienda, pubblicato un libro, vinto un concorso, e usano TikTok o Instagram per mandare un messaggio a quell’adulto che aveva chiuso il “loro dossier” troppo in fretta. È una piccola liturgia di riscatto: “non avevi ragione tu su di me”.

Sono tantissimi i ragazzi che fanno della propria vita un capolavoro, per usare le parole di Giovanni Paolo II. Questo nonostante la separazione dei genitori, i maltrattamenti subiti in famiglia, il professore che non ha mai saputo valorizzare quel talento. Eppure, qualche giorno fa ho incontrato di nuovo il mio professore di matematica del liceo, e il suo racconto mi ha riportato con i piedi per terra, ricordandomi storie che purtroppo non hanno avuto lo stesso lieto fine. Sarebbe ingenuo consolarci solo con gli esempi riusciti. Perché molti ragazzi interiorizzano la definizione ricevuta: se il mondo adulto mi ha archiviato come «senza attitudini», farò di tutto - consapevolmente o no - per non smentirlo.

Meno corsi di educazione affettiva, più educazione degli adulti

E qui arriviamo al punto. Si parla molto - e spesso in modo ideologico - di educazione affettiva per i giovani: c’è chi la rifiuta a priori, chi elabora programmi, chi invoca linee guida, e chi riduce tutto all’ennesima scheda didattica. Ma il film che abbiamo visto ieri, e anche molte dinamiche che si consumano sui social ad opera di sedicenti “anziani saggi”, mi suggeriscono un’urgenza diversa: educare gli adulti a essere adulti. Abbiamo bisogno di adulti che sappiano riconoscere il proprio burnout e chiedere aiuto, invece di sfogarlo sugli studenti. Adulti consapevoli, come ricorda la ricerca sulle “profezie che si autoavverano”, che uno sguardo di fiducia può letteralmente cambiare il quoziente intellettivo di un bambino, mentre uno sguardo di disprezzo può schiacciarlo. Adulti che imparino, prima ancora di parlare di emozioni ai ragazzi, a governare le proprie: frustrazione, rabbia, senso di fallimento. Invece di moltiplicare progetti e sigle, bisognerebbe cominciare da una regola semplice: in una scuola degna di questo nome, frasi come “attitudini: nessuna” non dovrebbero mai comparire. Non perché dobbiamo dire a tutti che sono geni, ma perché nessun educatore ha il diritto di chiudere il futuro di un bambino con una parola. Il suo compito è esattamente l’opposto: coltivare il talento di quel ragazzo, farlo emergere, «e-ducere», direbbe Alessandro D’Avenia.

Il film su Aldo, Giovanni e Giacomo ci mostra che la vita vince lo stesso, nonostante le pagelle.

Marco Felipe Perfetti
Silere non possum